Dott.ssa Antonella Scalise Psicoterapeuta
Psicodinamica e Relazionale - Specialista in DCA

COMUNICAZIONE COME SENTIMENTO NEL RAPPORTO MEDICO-ASSISTITO

I SENTIMENTI DELL'ANALISTA

OTTICA SISTEMICA E CLINICA PSICHIATRICA


COMUNICAZIONE COME SENTIMENTO NEL RAPPORTO MEDICO-ASSISTITO

THE COMMUNICATION AND FEELINGS IN THE DOCTOR-PATIENT RELATIONSHIP


La “Comunicazione come sentimento nel rapporto medico-assistito” affronta la necessità, oramai ineludibile, nel “Piano di Umanizzazione Aziendale”, che la medicina moderna non si esaurisca in una fredda prestazione tecnologica o in un intervento sulla malattia e sul malato.
É necessario, infatti, che il medico vada oltre alla ricerca di un rapporto più empatico ed arricchente. In questo modo il “passaggio in ospedale” potrà diventare un’occasione di umanità non solo per il malato e chi lo accompagna ma anche per i curanti ed, in genere, per quanti credono e vogliono una medicina più a misura d’uomo
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“The communication and feelings in the doctor-patient relationship” addresses the need, now unavoidable, in the "Humanizing Business Plan", that modern medicine does not end on a cold technological performance or assistance for disease and for patient.
It is necessary, in fact, that the doctor goes ahead to the search of a more empathetic and enriching contact. In this way the “transit in the hospital” can become an opportunity for humanity, not only for the sick and those who accompanies him but also for doctor and, in general, for those who believe and want a medicine more on a human scale.

La comunicazione nel processo di umanizzazione delle cure
La generazione di medici formatisi nel '900 ha visto via via mutare il modo di rapportarsi nei confronti dei pazienti: dall'autoritario quasi sciamanico al paternalistico con pacca sulle spalle e, infine, all'attuale approccio tecnocratico in cui prevale il rapporto con le macchine più che con la persona assistita.
Lo psichiatra francese Patrick Lemoine, nel suo Le mystere du placebo, si domanda: «Che cosa chiede innanzitutto un malato al suo medico?». La risposta è che: «contrariamente a quanto si può pensare, non scienza e notorietà, ma gentilezza e disponibilità».
In questa ottica il tema dell'umanizzazione delle cure nelle varie aree risulta oggi, come non mai, di grande attualità. L’umanizzazione va intesa come attenzione alla persona unica e insostituibile nella sua totalità fatta di bisogni organici, psicologici e relazionali e con un suo specifico contesto. Focalizzare, pertanto, il malato come essere umano e dialogare con lui consente di apprendere la forza e la debolezza del nostro trattamento ospedaliero.
Riportare al centro dell'interesse medico la Persona, in tutta la sua dignità e completezza psicofisica, consentirebbe di riscoprire gli antichi valori culturali che avevano fatto della missione del medico, come dice Baiotti [1], «una delle professioni più belle, affascinanti e difficili».
- Bella:
perché è insito nella mente umana il desiderio di aiutare chi soffre.
- Affascinante:
poiché la malattia è sempre avvolta da un velo misterioso diverso da persona a persona.
- Difficile:
in quanto ci si muove su un terreno inesplorato e infido.
L'Humanitas è il tratto che da sempre aveva caratterizzato la figura del medico “dal luminare al medico condotto”, fonte di conoscenze scientifiche il primo e competenze pratiche il secondo.
L'umanizzazione della medicina dovrebbe riportare in parametri più umani questo rapporto: non autoritario ma autorevole, non paternalistico ma partecipativo, non tecnocratico ma professionale.
Questo rapporto deve seguire una propria etica che porti ad un contatto paritario tra la Persona Assistita e la Persona Medico, in quanto l'essenza della medicina non risiede solo nell'ultimo sofisticato apparecchio diagnostico né nella recentissima scoperta genetica, ma anche nell'eterno confronto uomo-uomo.
La carenza di umanizzazione è, infatti, un tema forte nelle segnalazioni dei presunti errori medici.
Spesso questi non si rivelano casi di malasanità ma sono il frutto di una cattiva comunicazione e di un rapporto conflittuale tra cittadini e personale sanitario.
L'umanizzazione dell'assistenza investe numerosi ambiti tra i quali: prendere in carico il cittadino nel percorso di cure, curare la relazione tra professionisti sanitari, pazienti e familiari ed assicurarsi la trasparenza dell'accessibilità delle informazioni.
Un cambiamento paradigmatico si è avuto nella medicina negli ultimi 30 anni. Il paradigma biomedico meccanicistico riduzionistico, per molto tempo, ha fornito risposte adeguate in ambiti settorializzati ma non ha avuto la stessa efficacia rispetto a problemi con una valenza sistemica. Ha subìto pertanto un tracollo che ha portato a fare emergere, anche in medicina, un'ottica sistemica con la configurazione di un modello bio-psico-sociale, indispensabile per comprendere le complesse relazioni che influenzano il nostro benessere e la nostra salute [9].
Il campo di azione del paradigma bio-psico-sociale è la promozione della salute; definita dall'Oms come un processo di empowerment di cui la salute psicologica costituisce un aspetto fondamentale applicabile agli individui, ai gruppi, alle comunità e alle istituzioni.
Già Balint psicoanalista ungherese, negli anni 60, presentava la relazione del medico con il suo paziente come uno strumento terapeutico per cui decise di formare i medici di famiglia considerati asse portante del sistema sanitario nazionale inglese [2].
La sua scelta di lavorare con loro rispondeva al suo intento di raggiungere la “globalizzazione”; una visione il più possibile integrata della malattia all'interno della persona e della famiglia. Anche l'elemento tempo aveva, nella scelta di Balint, la sua rilevanza. La possibilità che un medico di famiglia potesse seguire i suoi assistiti nell'arco di diversi anni rappresentava uno straordinario osservatorio per rintracciare i percorsi nelle storie di vita e di malattia, nonché gli esiti di interventi attuati sia a livello farmacologico che di relazione.
Il nostro medico di base, purtroppo, è incastrato all'interno di un sistema che impone una clientela numerosa e che estranea entrambe le parti da un rapporto fiduciario e continuativo e per il rinvio facile e frequente allo specialista. Quest'ultimo prende in carico il paziente per la parte che gli compete, attuando un processo di parcellizzazione contrario alla “globalizzazione” attesa da Balint. «Eppure», come scrive P. Carbone, «anche se l'entusiasmo espresso da Balint, non è più il sentimento prevalente, abbiamo appreso l'arte della pazienza e lentamente e silenziosamente le sue scoperte continuano ad incidere e ad influenzare il percorso della medicina moderna» [2].
Oggi mente e corpo sono comunemente considerati componenti solo concettualmente distinte nella rappresentazione di un unico organismo.
La malattia è vista come il risultato della interazione di fattori individuali, psicologici, comportamentali e sociali sui quali gli individui possono influire responsabilmente qualora vengano efficacemente aiutati ed incoraggiati dai professionisti della salute capaci di offrire un valore aggiunto rispetto agli obsoleti profili professionali del passato, per cui anche in medicina malgrado “sacche di resistenza” prevale il paradigma bio-psico-sociale come modello di riferimento sistemico.
Le crescenti acquisizioni in campo tecnologico e scientifico che permettono di trattare, oggi, anche patologie una volta incurabili, non possono essere disgiunte nella quotidianità della pratica clinica e dalla necessaria consapevolezza dell'importanza degli aspetti relazionali e psicologici dell'assistenza, con l'emergere di un ruolo centrale nel processo terapeutico di un supporto umano e personalizzato.
Per Galimberti lo sguardo medico deve saper vedere il malato e non la malattia: uno sguardo che ascolta e risponde con empatia è ben altra cosa di uno sguardo che osserva passando di corpo in corpo eludendo il contatto visivo, dando al paziente la penosa sensazione di non essere visto, di non esserci come persona ma solo come parte o organo malato, con la conseguente amplificazione della sofferenza [3].
Gli aspetti che invece richiedono un ulteriore ampliamento della visuale rispetto al rapporto medico-assistito, responsabili di problemi relazionali differenti e nuovi, sono le dilatate possibilità di intervento che pongono il curante di fronte a scelte estreme con l'assunzione di un potere al limite della tollerabilità umana: pensiamo, per esempio, alle tecniche di ingegneria genetica o alla scelta di un malato per un trapianto d'organo.
Nella gestione di tali tecniche, il funzionamento mentale del medico è gravato emotivamente dal peso di una smisurata responsabilità con lo sconfinamento nell'onnipotenza e nella perdita del limite.
Un altro ordine di problemi riguarda il fatto che il rapporto medico-assistito non è più duale ma avviene all'interno di una istituzione animata dalle complesse leggi che dominano i gruppi e dalle angosce profonde di morte con cui il curante deve quotidianamente confrontarsi, considerando che «il successo e la vitalità di una Istituzione sono intimamente connessi con le tecniche che vengono usate per contenere le ansie» (Menzies I., 1970).
Tutti questi aspetti e queste dinamiche influenzano fortemente la relazione medico-assistito che possiede intrinseche valenze terapeutiche.
È quindi fondamentale costruire relazioni come ponti tra le persone che vanno consolidati, potenziati e migliorati, utilizzando la comunicazione, che dal punto di vista etimologico, significa “mettere in comune, confrontarsi, condividere una parte di noi stessi con l'altro”.
La comunicazione efficace non è la semplice trasmissione di messaggi, ovvero l'informazione, ma la capacità di utilizzare una dimensione emotiva che crea la relazione attraverso il riconoscimento dell'Altro, dei suoi bisogni e delle sue aspettative.
Vale la pena di ricordare che quando si parla di comunicazione lo strumento della parola è molto meno influente del non-verbale, ovvero della trama muta di ogni interazione, per cui ciò che si dice acquista senso e significato per come lo si dice perchè sottende il “sentire”, consapevole ed inconsapevole.
Le emozioni, in certe fasi e situazioni, possono diventare insostenibili, ecco perchè parlare ad un altro di un vissuto che tormenta, già di per sé, il più delle volte fa sentire meglio.
L'importanza del dire a qualcun altro ciò che si ha dentro dà a questo “dire” consistenza e significato. Se questo è sempre vero, lo è in modo più significativo e pressante quando la persona soffre oppure ha un disagio. Le risposte emozionali sono pertanto il frutto diretto del significato che attribuiamo agli eventi che ci accadono intorno e, contemporaneamente, rappresentano la matrice che produce ed innesca reazioni e significati nei nostri simili.
Spesso, pertanto, le emozioni dell'altro attivano contenuti emotivi equivalenti nell'interlocutore suscitando di volta in volta comprensione empatica o rifiuto se le emozioni in gioco sono disturbanti o soverchianti.
Tenendo conto delle condizioni reali delle situazioni (economiche, culturali, umane, ecc.) si potrebbe identificare una visione ideale-realistica della cura in cui la comunicazione gioca un ruolo immenso.
In fondo al cuore dell'etica biomedica c'è un'etica della comunicazione che rende a ciascuno un po' della sua identità, della sua umanità, una dignità che è qualità della vita personale.
Oggi la comunicazione efficace non è più un elemento facoltativo della relazione medica ma una sua condizione intrinseca, necessaria, etica e legale, oltre ad essere un elemento importante per la qualità di vita di tutti i partecipanti.

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La relazione medico-assistito
L’ammalato può vivere, per es., la malattia come minaccia di annientamento e perdita di sé. La relazione con il curante ha la funzione di compensare questa angoscia instaurando un nuovo e intenso attaccamento nei confronti del medico che ricalca aspetti del rapporto con le figure genitoriali.
Il medico può svolgere questa funzione di restauro dell'unità e immagine del sè del malato se la relazione è sufficientemente valida consentendo al curato il recupero della propria autonomia. L’insieme delle cure, incluse quelle farmacologiche, risente della qualità della relazione al punto da farle risultare estremamente efficaci o, al contrario, limitarne l’effetto.
Non si sta auspicando la trasformazione del medico in uno psicoterapeuta ma della necessità di riconoscere l'esistenza, nella pratica clinica, di atteggiamenti adeguati e spontanei come l'atteggiamento supportivo, esplicativo e contenitivo che possiedono intrinseche e generiche qualità psicoterapiche. Da questo punto di vista la pratica clinica, anche nella medicina generale, può costituire un primo livello psicoterapico aspecifico ma efficace ai fini terapeutici.
Questo ruolo può essere svolto se il medico funziona da contenitore delle angosce del suo assistito, se possiede sufficienti capacità empatiche e di identificazione, se riesce a confrontarsi con il dolore, con la morte, la consunzione ed il fluire delle emozioni che la relazione con il malato propone.
In caso contrario possono allora comparire barriere emotive quali la razionalizzazione, con cui vengono enfatizzati e ritualizzati gli aspetti tecnici, o la negazione che smorza le angosce del paziente e del medico il quale si difende con rassicurazioni funzionali allo scopo di mantenere le distanze dall'area perturbante insita nella malattia e, soprattutto, nei vissuti di malattia dell’ammalato.
Un paradosso che sembra riscontrarsi nella pratica clinica è il seguente: più il medico è preparato sul piano tecnico, più sa ascoltare e curare il corpo e meno è disponibile a cogliere la complessità della vita psichica del proprio paziente. Questo paradosso può essere legato alla scarsa familiarità del clinico con la semeiotica psicopatologica ma la mancanza di disponibilità all'ascolto emotivo del proprio paziente e le resistenze che si incontrano di fronte alla sofferenza psichica sono così intense da far pensare all’uso di massicce difese verso queste emozioni [4].
Di fatto, l'unica possibilità per non arroccarsi in difese a tenuta stagna, per contenere e tollerare il coinvolgimento con il paziente che in certi casi può essere molto frustrante, è la possibilità di disporre di una discreta capacità di introspezione e conoscenza di sè, unita ad una sostanziale disponibilità empatica.
Nella pratica clinica, Rossi evidenzia, come il distacco professionale potrebbe servire a coprire il rigetto per la sofferenza psicologica dell'altro, ma anche il timore di una invasione dalle angosce di morte e di inguaribilità, vissute come non gestibili, quindi destrutturanti e pericolose. D’altro canto un'eccessiva sollecitudine può essere quasi una formazione reattiva, come inversione di un sentimento di impazienza, irritazione e insofferenza per il malato.
Un rapporto improntato al freddo tecnicismo, centrato non sulla persona ma sul “caso clinico”, potrebbe implicare un isolamento emotivo dell’operatore, con sterilizzazione della sofferenza e delle componenti emotivo-affettive, fino all'ottimismo di negazione, che indica l'estrema impermealizzazione del medico alle angosce del paziente.
Nella pratica clinica emerge l’esigenza di riconoscere i linguaggi di piani diversi del corpo e della mente e di ricostituire possibilità di passaggio, perchè lo stesso linguaggio del corpo può esprimere un dolore mentale, data l'inestricabilità di disturbi fisici e relativi vissuti.
La nostra lingua, per es., è ricca di metafore che riguardano il cuore come organo per indicare un coinvolgimento emotivo intenso: “mi colpisci al cuore ... mi si spezza il cuore”.
Il simbolismo del dolore al cuore, del peso sul cuore, diviene in certi casi, estremamente concreto: nel caso di alexitimia, di una scarsa possibilità di mentalizzazione delle emozioni e della loro comunicazione, questo simbolismo può diventare dolore toracico.
Nella pratica clinica ovviare ai limiti nella gestione dell’assistito, da parte del medico, richiede un clinical managing globale del paziente stesso, che non può prescindere dalla possibilità di instaurare una valida alleanza terapeutica.
Anche se la terapia è essenzialmente farmacologica, una buona relazione medico-assistito, evita quello che viene chiamato non compliance, che ha a che fare non solo con i dubbi e le paure del malato riguardo al farmaco, ma soprattutto alla labilità e insicurezza della relazione con il medico.
Una buona relazione difficilmente risente della mancanza di compliance, perchè è possibile, per l’assistito, elaborare e discutere dei propri timori, riducendo così i rischi e le eventuali menzogne relative all'assunzione del farmaco.
La buona relazione non può prescindere per il medico dall'interrogarsi sulle proprie scelte professionali, sui propri bisogni e, quindi, dal possedere una certa introspezione.
Molte relazioni difficili sono legate alla difficoltà di tollerare, da parte del medico, che il paziente non guarisca ma l'interesse per l'uomo deve rimanere una delle qualità essenziali del medico in quanto «il segreto della cura del paziente è averne cura» (Sir Francis Peabody).
La funzione principale di chi si occupa dell'educazione alla salute è dare un'opportunità di esplorare e modificare stili di vita per ottenere un più elevato stato di benessere. Il medico, in tal senso, può essere definito un counselor, cioè colui che aiuta le persone ad aiutarsi [5].
È necessario quindi un vero cambio di sintonia attivando un ascolto più emotivo e ricettivo che lasci piangere, raccontare e ricordare. Al medico viene richiesta una funzione di contenitore, come il significato etimologico del termine suggerisce, un recipiente che accetta il contenuto lo accoglie e non lo deforma, contrariamente alla risposta del medico giudicante, direttiva, che parla e non ascolta
Offrire una presenza, oltre che un intervento, rientra nella funzione di contenitore, molto difficile da acquisire ma molto più difficile è riuscire a mantenere l’integrità del contenitore stesso affinchè non venga inquinato dalla propria emotività ma riesca a comunicare la propria empatia ed essere sintonizzati sul livello emotivo del paziente. Un sostegno emotivo appropriato favorisce una prognosi medica positiva anche in casi particolarmente gravi.
Si aumenta la consapevolezza del paziente con un'attività di comprensione e chiarificazione del problema presente, non forzando, però, i tempi di maturazione soggettiva. Tra medico e paziente si crea una relazione d'aiuto, modo delicato per indicare un intervento di supporto allo sviluppo del sè e delle proprie motivazioni, ma è anche una relazione in cui uno promuove la crescita dell'altro, come il rapporto tra terapeuta e cliente, insegnante/allievo, genitore/figlio. L'aiuto fornito non si basa, infatti, sull’impostazione dogmatica di diagnosi e terapie ma sull' approccio empatico e rispettoso.
Occorrerebbe riproporre ancora, una preoccupazione in linea con quella “preoccupazione materna primaria” che consiste non solo nelle attenzioni materiali e nel contenimento affettivo, ma anche nel creare un equilibrio, tra indifferenza e angoscia di allarme, rispetto a quando ci si deve preoccupare [6].
È attraverso queste esperienze che vengono accolte e restituite al bambino le angosce primitive, a volte attenuate e rese pensabili, a volte incrementate dalle ansie materne. Nello stesso modo si possono confortare, accogliere i pazienti o lasciarli alle loro angosce e confusione amplificate dalla indifferenza del medico.
In questa direzione si apre un'attuale tematica relativa al consenso informato, riguardo il cosa, come, quando dire la verità (ammesso che la si conosca) agli ammalati sulla loro condizione patologica.
In questo senso anche il momento diagnostico nasconde molte insidie, non solo legate al campo degli errori, delle imprecisioni o della incompletezza ma a volte anche una diagnosi giusta non meno di una sbagliata può avere, comunque, un'azione negativa se viene formulata e consegnata al malato al di fuori del contenimento di un rapporto umano, sottovalutando l'importanza dell'aspetto psicologico, come soggettività del curato.
Un concetto diffusamente utilizzato in medicina è, infatti, quello di “eventi stressanti” che tende a minimizzare il contributo dei fattori psicologici nella malattia facendoli coincidere con i fatti della vita. Non si tiene così presente che le vicende hanno un peso non come fatto in sè ma per come viene vissuto dai protagonisti. In tal senso nessun fatto diventa storia se la persona non possiede adeguate capacitá elaborative, per cui anche eventi minimi possono essere devastanti, mentre vicende anche gravi possono essere opportunamente compensate se ci sono le condizioni personali e le circostanze favorevoli per farlo.

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L’ammalato ed il vissuto di malattia
Generalmente l'evento di una malattia nella vita di una persona rappresenta uno strappo nella trama della sua esistenza, a volte un vero e proprio sconvolgimento della continuità, dei suoi ritmi evolutivi e della sua organizzazione sociale ma, al tempo stesso, può essere l'occasione di un grande cambiamento con il recupero di parti di sè negate che possono promuovere lo sviluppo di una maggiore vitalità.
Gli eventi che attengono al corpo, le sensazioni e le fantasie che lo riguardano rappresentano l'origine stessa dell'attività mentale ed il corpo funziona, per così dire, da cerniera e da intermediario tra il mondo interno e il mondo esterno, fra sè e l'altro o gli altri [7].
«Il corpo (come diceva Proust) è anche l'unico mezzo che abbiamo per andare al cuore delle cose».
Poter parlare della malattia consente di inserirla in una rete di significati che le tolgono il carattere di fattualità intrasformabile.
È necessario considerare in modo correlato, secondo una visione binoculare, il corpo malato e la mente che lo pensa, non esclusivamente in un contesto psicoterapeutico. Questa considerazione è sorretta, infatti, dall’osservazione dei processi mentali, delle fantasie, delle emozioni e delle ansie che emergono e si manifestano nelle persone che si ammalano.
È esperienza comune che nella descrizione della propria malattia, dalle situazioni più semplici e favorevoli a quelle più gravi, ogni persona ammalata propone, insieme e all’interno degli aspetti clinici che la riguardano, rappresentazioni ed elementi fantastici relativi a se stessa ammalata.
Affrontare l'evento morboso, dando anche spazio a tutto il corredo emozionale che l'accompagna, significa riconoscere, condividere ed affrontare tali elementi ed il disagio psicologico conseguente.
Nelle persone ammalate generalmente emergono antiche e dismesse modalità di funzionamento mentale e di reazioni emotive per far fronte alla preoccupazione e alla pena che il sentirsi ammalati comporta. Il ripristino di antiche e regressive difese è attivato da una pena psichica che non è altrimenti sopportabile, legata a sentimenti, fantasie ed ansie, spesso altrettanto primari come quelli connessi ad una trasformazione terrorizzante di sè, dalla perdita di parti e funzioni del proprio corpo fino all'annichilimento ed alla morte.
Tali difese dipendono, ovviamente in grado diverso e con varie modalità, dalla storia, dall'ambiente di vita delle persone ammalate e dalla specificità della stessa malattia. Tali fantasie rintracciabili all'inizio della vita o nei momenti delicati di passaggio, come nell'adolescenza, si riattivano quando si rompe l'equilibrio psichico in occasione del manifestarsi e della scoperta di essere affetti da una grave malattia.
Quando, all'inizio della vita, la sfera corporea e psichica sono confuse (perchè la mente non è ancora sviluppata), sul corpo si scaricano angosce relative a sensazioni e sentimenti primitivi non sufficientemente elaborate. La mente ricevente della madre accogliente permette a questi contenuti di essere riconosciuti, bonificati e rinviati al bambino consentendogli così di sviluppare la capacità di comunicare e di pensare. Appare evidente, fin dalle tappe più precoci della vita, quanto sia importante la comunicazione interpersonale attraverso la quale un evento somatico nel bambino diventa una manifestazione ed una comunicazione del suo stato somato-psichico, accolto dalla madre come una richiesta di aiuto e di ascolto.
È possibile mantenere l'analogia tra le prime modalità comunicative del bambino e quanto succede nel corso di una malattia che rappresenta un momento critico nella vita di una persona. Se il curante diventa contenitore delle sue sofferenze, può essere percepito come “oggetto amichevole che dà salute” (Bion, 1978).
La persona ammalata, se ha l'opportunità di comunicare e di essere compresa da colui che l'aiuta, continua ad usare la mente e a dare un significato alle sue sofferenze, evitando di appiattirsi sul soma percepito come un qualcosa di estraneo e minaccioso perché, in caso contrario, non ci sarebbe possibilità di trasformazione e riconoscimento emotivo, al di fuori del rapporto consolante con un'altra persona [7].
La malattia va intesa, quindi, come necessità di cure non solo per un corpo malato, ma implica l'accostarsi ad una persona ammalata nella sua indivisibilità e complessità.
Questo generico sostegno psicologico, implicito nella comunicazione/relazione curante-curato, dovrebbe essere il fondamento dell'organizzazione delle istituzioni e degli ospedali che le accolgono.
Una struttura sanitaria dovrebbe, infatti, essere capace di disporre di uno spazio per es. di counseling o di discussione sia per i curanti sia per gli ammalati, nel quale possono trovare posto, essere riconosciute e rese leggibili le emozioni, anche quelle molto primitive, impensate e impensabili prima dell'insorgenza della malattia stessa che rappresenta una crisi nella vita.
Questa crisi appare caratterizzata da angosce di perdita e di separazione che si presentano con un particolare carattere di concretezza, molto limitante rispetto alla possibilità di una trasformazione, per cui la mente rischia di collassare sotto il peso degli eventi fisici oppure di essere totalmente occupata e invasa dal loro pensiero.

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Il vissuto del medico
Uno studio condotto in un'Azienda Ospedaliera del Centro Italia evidenzia quanto sia importante gestire le emozioni per modulare la relazione esistente tra la percezione dell’organizzazione di un servizio ed il burnout degli operatori sanitari [8].
La gestione delle emozioni è considerata come una parte di lavoro fondamentale nelle professioni di aiuto. La quotidiana interazione con i pazienti, i parenti, i colleghi e i superiori richiedono adeguati livelli di coinvolgimento emotivo ed empatico che molte volte diventa difficile controllare.
Il burnout costituisce l'indicazione della crescente difficoltà di gestire adeguatamente le proprie emozioni quando si interagisce con l'utenza. La ricerca evidenzia la necessità di monitorare lungo tutto l'arco della vita lavorativa dell'operatore le sue capacità di regolare gli affetti, in particolar modo nei reparti caratterizzati da intense transazioni emotive operatore-assistito.
Anche dal punto di vista dell’operatore il tratto alessitimico, come incapacità a riconoscere e comunicare le emozioni, è strettamente collegato con la dimensione del burnout, ovvero con la sensazione di essere “prosciugati” emotivamente, depersonalizzati, rendendoli indifferenti e freddi nei riguardi degli utenti. Si aggiunge, inoltre, la spiacevole sensazione di non sentirsi realizzati nè nel proprio gruppo di lavoro nè dalla qualità delle proprie relazioni .
La partecipazione emotiva, invece, lungi dal corrompere la ragione ne esalta le proprietà curative, nel senso che consente al rigore del metodo scientifico di richiedere il massimo da se stesso, senza rinunciare a sè, ma sempre in movimento ed in azione con forza e sforzi. Là dove occorre che la comunicazione si manifesti nel suo senso più profondo (nonchè etimologico) di con-dividere, mettere insieme reciprocamente, farsi carico di un comune benessere.
Si potrebbe pertanto affermare che senza relazione non c'è cura.
Per capire come la comunicazione migliori la qualità della pratica medica bisogna considerare il contesto globale della cura e sostenere con Paul Ricoeur che la cura medica poggia sempre su tre tipi di partners:
- la preoccupazione di sè;
- la preoccupazione per l'altro;
- la preoccupazione per gli altri.
L'attenzione a sè comprende il rispetto dei propri valori personali, del senso della propria vita e del proprio lavoro.
La preoccupazione per l'Altro, l’ammalato, soggetto-oggetto della cura richiede che il medico debba avere un’autentica sollecitudine; senza dimenticare che ci sono sempre gli altri cioè i parenti del paziente, la sua famiglia, ma anche gli altri ammalati che si aspettano la giustizia e l'assegnazione a ciascuno di ciò di cui ha bisogno.
La comunicazione deve avvenire tra tutti loro, diventando una risorsa nel processo di cura e favorendo una maggiore competenza umana e professionale attraverso l'attenzione e l'utilizzo delle emozioni nel contesto lavorativo.
Saper comunicare e gestire le emozioni sono tra le competenze più importanti per gli esseri umani, perchè attraverso l'espressione dei nostri bisogni e dei nostri desideri possiamo affrontare al meglio le situazioni più critiche e far crescere le relazioni con chi ci sta accanto.
Gli aspetti emotivi diventano parte integrante della terapia così come la capacità di ascolto e di relazione acquistano un ruolo fondamentale nella cura stessa.

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L'ascolto
Comunicare è imprenscindibile dal saper ascoltare, chiave del successo nell'interazione con gli altri; l'elogio piú ricorrente nei confronti di una persona benvoluta è: «Lei sì che ti ascolta», e quindi, «Lei sì che mi capisce».
Le persone che ascoltano attivamente i loro interlocutori stabiliscono un rapporto bilaterale e cordiale, chiariscono ogni malinteso e guadagnano un sincero rispetto.
L'ascolto è un atteggiamento che offre all'altro lo spazio e l'opportunità di esplicitare i propri vissuti in libertà in uno stato di accogliente attenzione e comprensione. Nel rapporto con il paziente è la persona nella sua interezza al centro del trattamento; non solo i sintomi e le disfunzioni di organi specifici, ma sono presi in considerazione i sentimenti, le paure, le speranze dell'utente e della sua famiglia.
Parlando sempre più diffusamente di medicina centrata sulla persona assistita, ne deriva che l'accoglienza e la comunicazione sono riconosciute come mezzo indispensabile per stabilire una relazione che faciliti la fiducia, la collaborazione e la comprensione reciproca.
La comunicazione serve quindi a costruire relazioni, per le quali è necessaria la fiducia, ovvero il collante che lega le persone e che permette di definire relazioni chiare, trasparenti ed equilibrate. Fukiana l'ha definita “colla sociale”. La fiducia, infatti, non è uno strumento di comunicazione, ma è un valore che richiede all'operatore medico di esporsi nel rapporto con l'altro, sia nella sua dimensione psicosociale e valoriale sia in quella professionale (competenza).
La fiducia nella relazione è strettamente legata alla affidabilità (credere che l'altro esegua quello che dice di voler fare), alla abilità (credere che l'altro abbia l'abilità per fare quello che dice di voler fare) e alla integrità (credere che l'altro sia onesto e leale) dei partecipanti.
Il concetto di fiducia è quindi collegato con l'affidare a qualcuno (medico) qualcosa da custodire (salute della persona). Mentre in passato la consegna era acritica e totale, al giorno d'oggi l’ammalato desidera il controllo su ciò che ha lasciato in custodia.
Non vi è ormai alcun dubbio sul fatto che gli assistiti preferiscano trovarsi di fronte un medico non solo ben preparato, ma anche disposto ad ascoltare, a capire i loro stati d'animo e, se necessario, a lanciare uno sguardo comprensivo, a dire una parola di conforto, ad allungare una mano per un contatto emotivo.
L'ascoltatore empatico è in grado di percepire l'esperienza soggettiva di un altro.
L'empatia ci richiama all'autoconsapevolezza: quanto più siamo aperti verso le nostre emozioni, esperienze e percezioni , tanto più saremo in grado di aprirci per accogliere esperienze, emozioni e percezioni altrui.
Dalle ricerche risulta che l’empatia in clinica sia associata ad un esito migliore della visita e ad una maggiore soddisfazione dei medici stessi.
C’è da chiedersi quanto sia diffusa tra i medici la percezione che la mancanza di empatia possa costituire un problema nel lavoro clinico quotidiano.
L'esigenza di una comunicazione empatica si sta diffondendo sempre più, anche perchè una buona comunicazione va a vantaggio di entrambe le parti. Si associa, infatti, ad una maggiore compliance (aderenza dei pazienti ai trattamenti prescritti), a una riduzione delle denunce contro i medici per malpractice (inefficienza, negligenza, errore), e ad una riduzione dello stress professionale dei medici (burnout).
Occorrerebbe, pertanto, che accanto alla tradizionale formazione tecnico- scientifica, il personale medico sviluppi caratteristiche eminentemente umane: come la capacità di darsi, la disponibilità, l'accettazione del diverso, il bisogno autentico di comprendere e “amare” il paziente.
L'assenza di empatia negli ambienti medici sembra essere dovuta, in Occidente, alla predominanza della medicina sulla malattia.
Pur nella sua efficacia, oggi, questo modello mostra il limite dovuto al cambiamento della patologia. Rispetto a 50/60 anni fa, abbiamo più malattie croniche rispetto a quelle acute, per cui la comunicazione si deve adeguare. Un conto è dire ad un paziente che ha la polmonite, un altro è comunicare ad un adolescente che ha il diabete e che dovrà seguire regole di vita per i prossimi anni.

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Il medico e l’adolescente diabetico
Alla luce della mia esperienza di collaborazione con la diabetologia pediatrica, ho avuto modo di osservare quanto gli stessi pediatri che si occupano di bambini e adolescenti diabetici, registrino, nell'esperienza quotidiana vissuta con i propri assistiti, il ruolo giocato dai fattori emotivi e dalle dinamiche familiari nella gestione della malattia.
Il controllo metabolico del giovane assistito, infatti, può essere alterato da un elevato livello di stress, ma le tensioni individuali e familiari tendono ad interferire con le numerose pratiche mediche e la stabile routine che il trattamento del diabete comporta.
Il rapporto prolungato con i giovani assistiti, inoltre, tende a far sì che tra il medico, il bambino e la sua famiglia si instauri un legame molto intenso. Al pediatra appartiene il compito delicato e non certo facile, di affiancare i genitori nell’aiutare l’adolescente a riconoscere, esprimere ed affrontare le ansie connesse alla malattia. Il medico deve sfuggire alla tentazione di eluderle o sottacerle, per oscurare la realtà del problema, affrontando, invece, le incertezze e le domande che l'adolescente diabetico si pone alle soglie dell'età adulta. Deve, inoltre, aiutarlo nel progressivo distanziamento dalla madre come momento necessario all'auto gestione della malattia [10].
Solo un prendersi cura e non solo un prendersi carico dell’assistito in modo empatico ed umano permette la gestione di tematiche così delicate. Anche quando si evidenzia la necessità e la possibilità di delegare motivando lo stesso paziente al ricorso di un sostegno psicologico più specifico, come succede nella mia esperienza professionale, il medico rimane mediatore significativo.
Il problema delle emozioni, difficili da gestire, riguarda anche la varietà di risposte emozionali e reazioni che si suscitano nel pediatra dall'incontro con l'adolescente diabetico, per il quale l’operatore riveste una funzione centrale, non solo ai fini terapeutici ma anche come rappresentante di una figura parentale. Il pediatra è coadiuvante nello sviluppo psichico e nel processo di individuazione di questi ragazzi, rispetto ai quali bisogna fare i conti con lo sviluppo puberale e con tutte le trasformazioni corporee e le turbolenze emozionali che comporta. La pubertà coincide, per il ragazzo diabetico, con l'inizio di una maggiore attenzione e responsabilità rispetto alle pratiche terapeutiche, ma anche con il rischio di adottare reazioni auto ed etero aggressive per il rifiuto delle cure con conseguente pericolo della vita. In questi casi l'adolescenza del ragazzo diabetico può essere “un tempo infelice per tutti”, operatori inclusi, i quali possono sentire che il ragazzo è particolarmente vulnerabile e bisognoso di sostegno e trovarsi spesso in una situazione di impotenza in quanto le loro offerte di aiuto, non di rado, tendono ad essere rifiutate.
Con il proprio stile relazionale il medico deve comunque mediare tra l'adolescente, la famiglia e il mondo esterno, ma anche gestire l'emergere di sentimenti depressivi legati al riconoscimento delle scelte e dei limiti terapeutici, al dispiacere per il destino incerto di questi adolescenti, consapevole di essere identificato con un'immagine genitoriale e fidata.
I giovani pazienti diabetici, che ricevono un sostegno psicologico, mi dicono quanto sia importante che il medico risponda ai loro dubbi, ai come ed ai perché relativi al loro stato. La risposta rappresenta un aiuto indispensabile per includere l'evento di malattia, pur così drammatico, nella loro storia ed entrare in contatto con affetti ed emozioni che permettano di legare insieme i tempi della loro vita, di dare forma e significato al loro presente e al loro futuro, utilizzando il tempo a disposizione che tocca a ognuno, a patto che la mente possa nutrirsi e vivere.
Per questi giovani, come per tutti quelli affetti da malattie croniche, per es. la talassemia, esiste una interferenza reciproca tra adolescenza e malattia per cui i normali interrogativi su se stessi, i propri rapporti e il proprio futuro diventano più problematici.
Un’adeguata soluzione può venire raggiunta solo a prezzo del dolore mentale legato alla consapevolezza che li differenzia comunque dai loro coetanei; dal momento che la giovinezza è comunemente intesa come un periodo spensierato, preludio alla pienezza della vita e non possibile epilogo di essa. E proprio un tale costo psicologico può essere, almeno in parte, attenuato dal mantenimento di speranze realistiche e dalla condivisione offerta dall’équipe curante.
Inquadrare brevemente il clima psicologico, nel quale questi pazienti sono immersi, aiuta a comprendere la complessità delle dinamiche che il curante si trova a fronteggiare e di cui dovrebbe essere consapevole per poter svolgere la funzione di mediatore tra il paziente e l’esterno. Aiutarlo, per esempio, alla conquista dell’autogestione che per il ragazzo significa emergere gradualmente da una situazione di dipendenza nei confronti del genitore, quasi sempre la madre, che fino ad allora ha svolto questo compito. Consentirgli di poter esercitare un maggiore controllo rispetto ai sentimenti di impotenza sperimentati, spesso fin da piccolo, nei confronti delle cure mediche e dei processi oscuri ed imprevedibili che avvengono nel proprio corpo.
Il passaggio all’auto gestione trova spinta ed alimento nella stessa crescita che porta il preadolescente a desiderare una sempre maggiore autonomia ed indipendenza. Tale passaggio non è, però, né facile né indolore perché risente di tutti i conflitti tra impulsi vitali e distruttivi, incertezze e tensioni che sempre accompagnano la conquista dell’autonomia, enormemente potenziata  per l'adolescente diabetico, che è soggetto ad una realtà, la cura, da cui dipendono la sua salute e la sua stessa vita. In questa situazione, in cui adolescenti e genitori sono molto coinvolti emotivamente, il pediatra può svolgere un’utilissima funzione di mediazione e riequilibrio. Funzione che del resto gli viene riconosciuta e richiesta, tanto dai genitori che dagli stessi ragazzi.
Il pediatra ha, infatti, con i ragazzi e le loro famiglie una conoscenza che è di lunga data, soprattutto se la patologia ha avuto un esordio infantile, ed una consuetudine profonda che deriva dall'aver condiviso momenti significativi e drammatici dell'iter terapeutico. Ovviamente questa relazione sarà tanto più intensa quanto più il rapporto sarà stato “personalizzato” con la presa in carico da parte di uno stesso sanitario che segue il ragazzo dall'esordio della malattia fino al passaggio al diabetologo degli adulti.
E questo è anche il motivo per cui la personalizzazione del rapporto, che costituisce un fattore di continuità ed un elemento terapeutico importantissimo, espone i medici ad un carico molto elevato di ansie, legate anche a situazioni di impasse, caratterizzate per esempio:
- dall’assenza dell’adolescente che si pone come un muro, inavvicinabile, nel tentativo di evitare il contatto con la realtà della sua malattia;
- dall’assenza del genitore, escluso in realtà dal figlio. Egli cerca, infatti, un rapporto diretto con il medico per ottenere una prematura gestione della malattia, che spesso si rileva pericolosamente anarchica;
- dall’assenza di entrambi dalla scena terapeutica, per cui genitore e figlio sembrano negare la malattia sfuggendo il rapporto con il pediatra. Proprio in questi casi è importante che il medico sostenga l'ansia e cerchi di ripristinare un contatto ed una comunicazione. Nonostante che questi suoi tentativi siano spesso vissuti come intrusivi o sembrino cadere nel vuoto o senza sortire, almeno nell'immediato, alcun effetto.
Il riferimento ad un gruppo di discussione psicodinamicamente orientato, com'è stato realizzato nel Dipartimento di Pediatria della facoltà medica dell'Ateneo Federico II di Napoli, ha mostrato di poter aiutare i pediatri a districarsi fra le complesse emozioni e dinamiche in gioco, rendendoli consapevoli delle implicazioni psicologiche connesse alla diagnosi e alla terapia del diabete. Altrettando importante, si è rivelata l’esigenza di essere aiutati ad orientarsi meglio nelle molteplici e complesse situazioni relazionali affrontate: il rapporto del ragazzo con la malattia, fra ragazzo e genitori e fra lo stesso pediatra, il ragazzo ed il contesto familiare.
Fra le emozioni in gioco rientrano i sentimenti depressivi e di perdita vissuti dal pediatra stesso, come normale risposta emotiva indotta dal distacco, per l’imminente separazione dal ragazzo con il suo passaggio al diabetologo per adulti, dal riconoscimento dei limiti terapeutici e dall'incertezza per le condizioni future dei propri pazienti, come traspare dalle parole di uno dei pediatri: « … infine vi è il distacco dal nostro Centro: i ragazzi diventano adulti e noi non possiamo più seguirli. Quando questo accade, improvvisamente mi sembrano lontani, fanno parte ora del mondo degli adulti. Quando penso a loro, penso alle complicanze più o meno gravi che le statistiche dicono colpiranno alcuni di essi. Ma noi non lo sapremo mai. Le statistiche mi sembrano solo numeri e quei ragazzi li penso sempre come ragazzi» [11].
Un'altra importante esperienza sulla significatività della relazione medico-paziente è stata effettuata presso il Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell'Adolescenza dell'Università di Torino, nell'area della Pediatria oncologica e del Centro per le Microcitemie [12].
La collaborazione con l’équipe medica e operatori psicologici ha consentito di effettuare interventi sia individuali sia di gruppo con assistiti e curanti. Questi ultimi, infatti, regolarmente e accuratamente supportati da un supervisore hanno offerto una disponibilità all'insegna di una sincera, se pur dolorosa condivisione, rinforzando la stabilità dell’équipe curante e affinando la loro capacità di comprendere e condividere.
In questi gruppi con ragazzi talassemici e i loro medici, i giovani pazienti, per esempio ,furono molto stupiti nell'apprendere di non essere i soli ad aver paura di morire ma che questo problema era appartenente anche ai curanti. Questa, per loro, fu una tappa fondamentale per la scoperta «… di non essere oggetto di studio» ma, al contrario, soggetti di una comunicazione dove lo scambio e la condivisione erano veramente realizzabili.
Parallelamente nei rapporti la possibilità di condividere li portava ad attenuare i sentimenti di solitudine e di incomunicabilità del loro stato emotivo, che implicava un vissuto di diversità e di estraneità rispetto agli altri, passando così da una condizione doppiamente critica, qual è la malattia cronica nell’adolescenza, caratterizzata da una specie di annullamento mentale ed emotivo senza possibilità di scambio e di crescita, allo sviluppo della possibilità di pensare, condividere e comunicare partecipando così pienamente all'esperienza umana, nel tempo della vita concesso ad ognuno di noi.

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Il rapporto curato-curante: un fluire di emozioni
Il processo di umanizzazione richiede, pertanto, lo sforzo di avvicinarsi emotivamente alle persone in una situazione dolorosa e negativa per trovare risposte e strumenti capaci di lenire la sofferenza che l'esperienza di malattia comporta, non solo attraverso le tecniche ma creando e alimentando un rapporto emozionale definito da Fosser «eroico ed umano al tempo stesso», perché l’ammalato partecipa alla cura chiedendo al curante anche una relazione interumana e la promessa di una compagnia di percorso, nel quale la fiducia è un elemento imprescindibile [13].
La richiesta di umanizzazione della relazione, il controllo della malattia ma soprattutto la consegna di sè da parte del malato, si esprime nella frase frequente :«Dottore, decida lei» che implica sicuramente il riconoscimento di un sapere e di una competenza, ma anche la necessità di fidarsi e di affidarsi.
É implicita una promessa di fedeltà tra chi, come il malato è attanagliato dalla paura e dall'ansia e chi, come il medico, porta il peso di una impossibile condivisione con l’assistito, delle proprie incertezze e dei propri dubbi riguardo alla terapia e ai suoi esiti, traducendosi così in un percorso dove entrambi portano carichi emotivi, a volte per entrambi sbilanciati.
La relazione di cura è sempre stata fortemente asimmetrica per la forza del paradigma medico nel quale c’è chi sa, il medico, e chi ha bisogno, il malato, ma la promessa di fedeltà implica, invece, accogliere la vulnerabilità e la fragilità che si accompagna alla malattia e che non coincide con il consenso informato o la comunicazione della verità. La sofferenza, infatti, non è solo una descrizione di sintomi o un concetto, ma è un volto , una storia, una persona. La terapia non può, di conseguenza, coincidere con un protocollo applicato ad un caso clinico come terreno su cui si combatte utilizzando, a volte, armi che attaccano sia il nemico sia il combattente
Per questi motivi la cura richiede la relazione, la ricerca di un senso da restituire e la sintonia tra biografia e terapia.
Dalla sofferenza nasce poi la solitudine perché il malato, dipendente da un corpo che ha bisogno, si trova ad essere consegnato a chi cura che, a volte, è assente, a volte fa male, a volte si fa attendere.
In questo scenario anche la propria identità si sfalda, perché la malattia è un'esperienza del limite umano e noi non nasciamo addestrati a tollerarlo né siamo depositari di assolute certezze, anche se le cerchiamo, per cui abbiamo sempre bisogno di qualcuno che, come in uno specchio, ci rimandi una conferma o ci riconosca con un nome. Se questo è sempre vero, lo è ancora di più in momenti critici della vita che implicano, come la malattia, la condizione del limite e della incertezza.
La malattia ha, inoltre, un forte significato simbolico vissuta come agente persecutorio che aggredisce dall'esterno, anche se in realtà nasce dentro di noi, si accampa all'interno del corpo, sospendendo, in certe situazioni, la vita in un limbo deserto nel quale si smarriscono le coordinate del tempo e dello spazio rispetto alle quali l'essere umano si organizza.
Il tempo si condensa in un lago immobile rendendo, nei casi più gravi, difficile il vivere quanto il morire, mentre lo spazio occupato dal corpo, ma assediato dalla malattia, diventa confuso perché, ad ogni controllo e ad ogni nuovo consulto, cambia continuamente la percezione di sè, della propria fisicità, di quello che si era e di quello che si è perduto.
«Quando la malattia tradisce il corpo», dice Vinicio Fosser in toccanti pagine sul rapporto continuo medico-paziente, «viene ferita anche la fiducia iniziale, quella che il bambino provava verso la madre e grazie alla quale poteva vivere e lasciarsi andare».
Nella relazione di cura il medico diventa quella madre che deve rivitalizzare quel bambino inerme e spaesato, perché possa vedere in chi gli sta accanto colui al quale affidarsi per affrontare l'incertezza dei nuovi scenari della propria vita e, soprattutto, nelle situazioni più rischiose, la paura e la solitudine di fronte alla domanda:«...ma guarirò? ... Avrò tempo?...»
La malattia è sempre corrosiva: riduce gli spazi di autonomia, la fiducia in se stessi e implica la necessità di dipendere dagli altri.
«La relazione curato-curante restituisce al paziente dignità, integrità e forza», continua Vinicio Fosser, «come se la relazione infondesse al malato una straordinaria energia, una trasfusione, nel ricostruire la dimensione materna e comprensiva, un luogo riparato dalla mareggiate delle proprie paure, dove il paziente ha sempre la sensazione di ricevere un'offerta di nutrimento e di protezione».
L'aiuto migliore che si può dare a chi soffre è proprio la speranza, il "munus matris", il dono della madre, come possibilità di continuare a lottare e di trovare un senso.
A volte è necessario anche il silenzio, perché il dolore come l’amore fanno parte dell’indicibile mistero dell’essere che non trova parole per dirlo, ma offre solo la possibilità di esserci e di trasmettere sentimenti.
La tenerezza, per esempio,come parte dei bisogni primordiali dell'uomo, contiene e porta aiuto e conforto che è più dell’abilità degli atti terapeutici, nella consapevolezza che la malattia non può essere negata ed elusa, ma che «la frequenza dell’insuccesso terapeutico spinge chi cura a sviluppare la capacità adulta della mente, la capacità non solo di fare... ma di pensare e di sentire...» restituendo così dignità alla persona e forza per andare avanti.
«Dottoressa, dove andiamo sempre nella vita, quando abbiamo bisogno o paura, se non verso casa?», diceva una mia paziente ,«...e la mia casa è la relazione con lei...»
La casa è sempre, metaforicamente, un legame.
Facciamo quindi in modo che la relazione curato-curante, attraverso, non un farsi carico ma un prendersi cura, possa trasformarsi in un’esperienza di gratuità umana, in un gesto responsabile verso l’Altro, così che la malattia, da barriera o porta chiusa possa diventare un passaggio ... Questa è, infatti, un’occasione per riflettere e monitorare con attenzione e sensibilità le proprie modalità relazionali perché porsi in relazione significa non solo aprirsi a comprendere l'altro, ma soprattutto mettersi in gioco.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Baiotti G. - Umanizzazione della medicina - Disponibile da: http://www.intempo-online.com/component/content/article/29-salute/164-una-medicina-piu-umana.html
[2] Carbone P., Milana G: - Introduzione – Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 2 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg. 108/110
[3] http://www.tizianaromano.it/relazione-medico-paziente.pdf
[4] Rossi R., Fele P. – Incontrarsi e dirsi addio: il fuggevole incontro tra medicina e psicoanalisi - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 2 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg. 112/123
[5] Prof. Mario Capunzo dell`Università degli Studi di Salerno - Facoltà di Scienze dell`Educazione - Facoltà di Medicina. Rapporto medico paziente, relazione d’aiuto e caregiving. Disponibile da: http://www.disced.unisa.it/personale/Docente/Capunzo/Capunzo_cattedra/Capunzo_dispense/disp%20Rapporto%20medico%20paziente.pdf
[6] Riefolo G:, Sciascera P. – Il campo della consulenza psicologica in ospedale generale - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg. 296/309
[7] Peluso M., Massaglia P. – Il corpo quale luogo iniziale della vita mentale e della comunicazione. UN’esperienza di lavoro con adolescenti talassemici - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg. 233/237
[8] Lazzari D., Pisanti R., Avallone F.  - Percezione di clima organizzativo e burnout in ambito sanitario: il ruolo moderatore dell’alessitimia. Disponibile da: http://gimle.fsm.it/28/1s_psi/06.pdf
[9] Petrini P., Zucconi A. – La relazione che cura 2008 – Ed. Alpes - Pagg. 373/385
[10] Adamo S. M. G., Adamo Serpieri S., Iacono C.- Curare e prendersi cura di adolescenti diabetici. Un gruppo di pediatri e psicologi basato sull'osservazione partecipante. - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1993 Vol 11 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico Pagg. 251/255

[11] Adamo S. M. G., Adamo Serpieri S. - Il percorso dell’adolescente diabetico verso l’autogestione terapeutica e la conquista dell’autonomia psicologica. - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico Pagg. 284/294
[12] Peluso M., Massaglia P. – Il corpo quale luogo iniziale della vita mentale e della comunicazione. UN’esperienza di lavoro con adolescenti talassemici - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg. 238/244
[13] Fosser V. - Tra medico e paziente: un rapporto continuo Medicina Oncologica.VII 2007 - Ed. Elsevier – Capitolo 71


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Convegno di studi su
I SENTIMENTI DELL'ANALISTA
Copanello


Il lavoro terapeutico è un itinerario tortuoso e complesso molto di più oggi che in passato, quando un solido bagaglio teorico e la capacità di mantenere "un'olimpica neutralità"erano considerati strumenti terapeutici sufficientemente adeguati. Affrontando poi il mondo degli affetti nella coppia terapeutica - per troppo tempo escluso e trascurato perché ritenuto poco aderente al modello psicoanalitico - si sono dischiusi nuovi orizzonti. Infatti, citando liberamente la Pierantozzi nell'introduzione a "I sentimenti del Terapeuta"(1), lo specchio neutrale che il terapeuta opponeva ad un paziente che stava annegando in una tempesta affettiva era in effetti una difesa, un'indifferenza che segnalava passione, per dirla con Proust, "l'assenza d'affetto come segnale d'affetto forte".
Ascoltare quindi il paziente e "ascoltarsi"nel rapporto con lui è uno dei cardini della relazione terapeutica. Il lavoro di terapia, così come la vita, accanto ai suoi aspetti più umani, creativi ed evolutivi, resta un lavoro crudele, per la sua necessità di esporsi ad angosce disgreganti, che spesso portano a dire: Ma chi me l'ha fatta fare? Angosce che devono però essere accolte, tollerate necessariamente, vissute sulla propria pelle, se si vuole che anche l'altro le percepisca come tollerabili e vivibili.
La favola antica di Esopo del lupo e della grù, che deve coi becco introdursi nelle fauci del lupo per estrargli un osso rimasto pericolosamente conficcato in gola, pur nel timore di finire divorata tra i suoi denti, oltre a ciò che hanno riscontrato Carbone e Cuzzolaro (2), illustra una fantasia arcaica legata all'intervento terapeutico, con la sensazione, a volte, di essere divorati dai pazienti - per la cui avidità nessun cibo affetto appare sufficientemente appagate - e con la necessità di affrontare un viaggio rischioso, irto di pericoli all'interno dell'altro, con cui ci si deve fondere, ma non confondere, e da cui non si sa se si riuscirà a tornare alla realtà e quindi a separarsi e a distinguersi . Anch'io ho provato il desiderio di fuggire quando il mio lavoro mi ha messo a contatto con un livello di dolore mentale che ritenevo impari e superiore alla mia capacità di tollerarlo, scatenandomi stati d'animo che non riuscivo a padroneggiare.
Sappiamo bene quanto dolorosi siano gli aspetti autodistruttivi dei pazienti, le loro tragiche esperienze interne, specie quando si viene a contatto con angosce di morte! Ma nella mia esperienza con Marta, l'intensità di questa sofferenza era estrema, perché Marta aveva realmente solo pochi mesi di vita, affetta, com'era, da un melanoma in fase ormai molto avanzata.
Cercherò di raccontare l'esperienza che questa donna ha condiviso con me, per il poco tempo che le restava da vivere le sue angosce, la sua rabbia, le sue attese, le sue frustrazioni, e di come, nonostante ciò, mi sia fatta carico della sua sofferenza che all'inizio della terapia fluttuava tra un rifiuto quasi costante della malattia e un costante tentativo di procurarsi la morte. Ho aspettato molto, prima di parlarne perché alcune esperienze non si possono tradurre in parole, e anche dopo averle vissute, ascoltate, viste, difficilmente si possono... dire. Spesso mi rendevo conto che il senso di quella terapia ed il profondo impegno emotivo che mi veniva richiesta era di accettare la sua angoscia di morte, non lasciandola sola con la sua collera ed il suo sdegno verso il mondo e verso Dio, o con la sua invidia verso di me che non ero accomunata in quel momento al suo destino, così come invece tutti gli altri che al contrario godevano ancora di quella vita che per lei correva velocemente verso la fine.
"Cosa può lei per una persona che stà come me ?"Era la sfida aggressiva che mi lanciava all'inizio dei nostri incontri. In quel momento venivo afferrata dai sensi di colpa perché lei sapeva che sicuramente sarebbe morta di lì a poco, ed io no. Comunque desiderava che io l'accettassi, rendendosi conto - e comunicandomelo - del peso di cui mi faceva carico, pur non volendo che i suoi familiari, soprattutto le sue figlie adolescenti, la vedessero disperarsi. All'inizio accettava di disperarsi rabbiosamente solo con me, per dirmi, però, che è assurdo accettare di morire quando si desidera vivere, quando si ha una famiglia che si ama e quando si è raggiunta l'agiatezza che le avrebbe finalmente permesso una certa tranquillità. Era, infatti, semplicemente impossibile, impensabile da accettare in quel momento per lei ed anche per me - che non avevo assolutamente nulla da insegnare, ma solo ad apprendere - un'esperienza che oggi sembrava non appartenermi, ma che prima o poi mi avrebbe personalmente riguardata. Da parte mia non potevo far altro che sperare di aver tempo sufficiente perché dalla rabbia devastante che provava potesse raggiungere un'accettazione che le restituisse pace e dignità.
Ed io? lo potevo solo ascoltarla, misurando tutta la mia impotenza e cercando di trasmetterle tutta la mia compassione (nel senso di 'patire con'), anche se all'inizio quasi desideravo che non venisse, che mi evitasse di confrontarmi con quel dolore. Alla fine però, mi ritrovavo sorpresa nel constatare con quanta puntualità rispettasse gli appuntamenti e mi avvertisse delle inevitabili interruzioni dovute ai ricoveri per la chemioterapia che le davano vere crisi di panico, 'vicino alla follia' -come lei stessa le definiva - e, infine, come provassi ogni volta che la vedevo la sensazione che fossimo importanti l'una per l'altra.
La prima volta che la vidi si presentò come una figura pietosa, trascurata, con i capelli in disordine, e fu un impatto sconvolgente, perché - per averla conosciuta in passato - la ricordavo come una donna estremamente attraente e curata. Il nostro lavoro poteva essere quello di portarla ad accettare la morte senza suicidio e senza follia. I nostri incontri durarono solo pochi mesi e Marta passò, dalla prima reazione di rifiuto della consapevolezza catastrofica della sua malattia, ad un'altra fase dominata da sentimenti di rabbia, invidia e risentimento. Mi ripeteva spesso che aveva la sensazione di sentirsi 'sporca fisicamente' per cui si lavava in continuazione senza 'liberarsi della sporcizia'.
Aveva spostato sul corpo la rabbia autodistruttiva che la invadeva senza tregua. La sua collera veniva proiettata in tutte le direzioni e a volte quasi a caso creando notevoli problemi anche in famiglia.
Cercai di mettermi nei panni della paziente, e mi sentii come chi si sarebbe certamente arrabbiato se tutte le attività della sua vita fossero così prematuramente interrotte, se tutto quello cominciato rimanesse incompiuto o venisse finito da altri; se avessi messo da parte un po' di denaro con tanti sacrifici per godere alcuni anni di riposo o di piacere ed all'improvviso 'tutto questo non gli appartenesse più'.
E poi c'era il dispiacere di abbandonare il marito che amava e soprattutto le sue due figlie. Fu parlando delle ragazze che il suo risentimento si placò, facendomi promettere che mi sarei presa cura di loro così come stavo facendo con lei, e che, se ne avessero avuto bisogno sarei rimasta un loro punto di riferimento. Ricordava ancora intatta, la perla provata per la perdita di sua madre avvenuta quando aveva già una famiglia in grado di sostenerla.
Da parte mia tolleravo la fase della sua collera solo affrontando la mia paura della morte, i miei desideri distruttivi e le mie difese.
A volte mi chiedeva quanto tempo pensassi che avremmo avuto a disposizione, e francamente le rispondevo che si stava facendo il possibile ma che non sapevo rispondere alla sua domanda.
Smise di presentarsi agli appuntamenti dimessa, e così potei apprezzare le risorse residue a cui dava fondo per mantenere un'immagine dignitosa che lei stessa mi faceva notare. Poi venne la fase del compromesso, una sorta di venire a patti con la realtà nel tentativo di dilazionare il tempo.
Mi ritrovai a negare a me stessa che il nostro tempo a disposizione stava per finire.
Poi, dopo un breve miglioramento che illuse entrambe, il tempo fini rapidamente. Non venne all'appuntamento. La situazione precipitò costringendola a letto. Chiese di vedermi ancora ed andai a trovarla a casa. Mi ringraziò per tutto quello che avevo fatto per lei dicendomi di sentirsi tranquilla e di non avere più paura di morire.
Non le dissi nulla: non c'era bisogno di parole. I sentimenti che reciprocamente provavamo si potevano esprimere solamente stando vicino, in silenzio.
Mi disse che era stanca di lottare per la vita e che era pronta a separarsi.
Credetti che questo le consentisse dopo tutte le sue angosce ed ansie uno stato di accettazione e di pace, cosi come se il dolore se ne fosse andato e la lotta fosse finita.
Oggi sono convinta che avere il coraggio di non sfuggire questi malati senza speranza possa essere di grande aiuto durante le ultime fasi della loro vita, che s'impara sicuramente molto sul funzionamento della mente, quando si vivono aspetti eccezionali dell'esistenza umana.
ome dice la Kubler - Ross (3): 'se ne esce forse con minori ansie riguardo alla propria fine'.
Dopo questa esperienza, trovo che il lavoro terapeutico sia troppo inquietante e delicato per essere riferito solo a modelli teorici e concettuali definiti.
L'atemporalità della fiabe per es., il loro essere situate in una dimensione trasfigurata, dove i personaggi si muovono in scenari fantastici, rappresentano figure archetipiche che incarnano le contraddittorie esigenze e tendenze di bambini e adulti sembra prestarsi bene ad illuminare aspetti profondi delle umane vicende al di là della epistemologia. Ripensando a Winnicott (in Nissim-Momigliano e Robutti) (4) il quale sostiene che: 'la follia è il non essere mai stati tollerati da nessuno', spesso mi torna in mente la favola del ranocchio che si trasforma in principe quando viene baciato dalla principessa di buon cuore capace di accettarlo così com'era, con la sua bruttezza e la sua ripugnanza.
Una paziente che soffriva di depressione un giorno mi disse di sentirsi 'liberata dal maleficio' per l'attenuarsi della patologia, quando sua madre l'aveva abbracciata.
Nella Bella e la Bestia, 'una creatura deve essere amata prima ancora di essere amabile' (Betthelehim) (5). Il bacio quindi, diventa un gesto d'affetto che trasforma e migliora consentendo di ritrovare la bellezza perduta, una metafora di quello che dovrebbe accadere tra terapeuta e paziente nell'accettazione di quest'ultimo da parte del primo con tutte le sue parti più primitive e inadeguate che verranno necessariamente trasformate ed integrate.
Anche nel concetto di 'Base Sicura' (Bowlby) (6) la presenza empatica della madre è condizione essenziale perché il suo bambino sopravviva e cresca.
Winnicott (cit. da Nissim - Momigliano e Robutti, op. cit.) con il termine 'Holding' indica come si dovrebbe tenere in braccio (così come nella propria mente) il bambino ed il paziente, rimanendo 'là dove egli è' e dove chiede di essere raggiunto. Nella relazione terapeutica oltre a tollerare e condividere, condizioni essenziali dell'incontro empatico, è importante saper attendere, soprattutto con i Pazienti più gravi con i quali è necessario sapersi avvicinare gradualmente mettendo da parte le pretese sciamaniche di avere già tutte le risposte in tasca, e ascoltare, considerando che chi stà di fronte è qualcuno che ha una sua storia personale da raccontare, diversa da tutte le altre... e che deve avere il tempo, la disponibilità e la voglia di farlo. Il racconto psicoterapico, come dice Di Chiara (in Nissin-Momigliano e Robutti op. cit.) (7), non è soltanto la 'narrazione di fatti ed eventi clinici... non è un testo, ma sempre un contesto... una relazione... un raccontare ad un altro che ascolta all'interno di una trama comunicativa d'affetti e di emozioni che sono le precondizioni essenziali e preverbali ". Per questo, il racconto analitico non ci informa, ma ci fa partecipare, raccogliendo ed esprimendo "la vicenda emozionale e relazionale interna e condivisa dei suoi due protagonisti. Così come avviene nel Piccolo Principe di Saint-Exupery (8), l'incontro tra la volpe dei deserto ed il principe venuto da una stella. è ancora una volta metafora della gradualità necessaria nell'avvicinarsi a chi, sia pure ritroso e selvatico, desidera che qualcuno lo raggiunga. La volpe della favola desidera, infatti, che il Principe l'addomestichi, e addomesticare - lei dice - significa 'creare dei legami'... cosa che da tempo gli uomini hanno dimenticato.
Chi lavora con gli psicotici sa quanto è facile farli 'scappare' e, se le cose stanno così, questo comporta un avvicinamento graduale - come suggerisce la volpe stessa al principe e questi deve accontentarsi all'inizio di guardarla da lontano, senza parlare, 'perché le parole, spesso, sono fonte di malintesi'. Successivamente ci si potrà avvicinare ogni giorno un po' di più, ma sempre alla stessa ora, e quell'ora sarà importante e diversa da tutte le altre. La volpe non si limita però solo a questo ma svela al principe il suo segreto: "non si vede bene che col cuore! l'essenziale è invisibile agli occhi... Solo le cose che si addomesticano e a cui si dedicano tempo ed energia si addomesticano e a cui si dedicano tempo ed energia si conoscono profondamente ", e di esse si rimane responsabili per sempre, anche quando inevitabilmente ci si deve separare, proprio come avviene nella fiaba e nella realtà...
I momenti cruciali dell'esperienza analitica sono l'incontro, la costruzione affettiva del legame, la separazione. Proprio questa ultima l'analista sa di dover tenere presente sin dal primo incontro. 'Il paziente è un altro - dice Di Chiara (op. cit.) è il suo altro per eccellenza nel rapporto analitico'; e ancora: 'separarsi è l'elemento pertinente al riconoscimento ed allo sviluppo dell'identità psichica e somatica, all'elaborazione dei processi di lutto, e quindi alla formazione della persona umana normale'. Solo, però, se si è appartenuti, ci si può separare anche se il commiato è inevitabilmente un po' triste, pur lasciando un reciproco arricchimento per 'L'esperienza che si è condivisa' (Nissim-Momigliano, op. cit.),
Se accettiamo il concetto che il lavoro di terapia proceda per transitorie identificazioni proiettive, il terapeuta si trova continuamente a contatto con livelli di sofferenza mentale la cui intensità non è preventivabile. Si pone quindi un cruciale interrogativo: quale rischio si è disposti a correre per accogliere e metabolizzare esperienze non ancora conosciute' ma che la relazione con il paziente può scatenare in noi? La Wittemberg (in Nissim-Momigliano e Robutti, op. cit.) (9) - per es. - sottolinea l'angoscia che può comportare l'operazione di introiezione - incorporazione, attraverso la quale l'operatore si fa carico
delle sofferenze del paziente, con il rischio di rompersi egli stesso esponendosi ad un mutamento catastrofico, secondo quanto sostenuto da Bion (cit. da Nissim-Momigliano e Robutti,).
Le intense difficoltà sperimentate nel lavoro psicoterapico danno la misura di quanto sia temuto l'incontrarsi con quelle parti di se stessi che vengono continuamente proiettate sui pazienti e che gettano luce insopportabile su aree emozionali che comportano un dolore mentale non elaborato e forse mai elaborabile.
Per quanto sia difficile la consapevolezza di questi aspetti, non la si può certo eludere facendo finta di non vedere. Sembrerebbe quindi che il contatto con il dolore mentale possa rendere più vulnerabili e più fragili, togliendo forza ed energia, soprattutto in chi essenzialmente riesce ad entrare in contatto con questo dolore e farlo momentaneamente suo. Ma con sottile ironia, una vecchia fiaba tedesca riportata da Carbone e Cuzzolaro (op. cit.), suggerisce che non è proprio vero che consapevolezze dolorose tolgano energie, rendendo più vulnerabili.
Esistono persone, dice ancora la fiaba, che nascono con un cuore di cristallo, un cuore vibrante e sensibile, capace di risuonare ad ogni sensazione e di percepire le vibrazioni dell'altro. C'è il rischio, però, che questi cuori, se sottoposti ad urti troppo violenti, possano spezzarsi irreparabilmente. Spesso, invece si incrinano soltanto, e - come tutti sanno - gli oggetti incrinati sono gli ultimi a... rompersi. E', vero, quindi, che i cristalli incrinati si spezzano difficilmente, ma è anche vero aggiungersi -secondo la mia esperienza - che non risuoneranno mai più come prima...

RINGRAZIAMENTI: al Dr. Nicotera va la mia gratitudine per avermi aiutata a trasformare "l'emozione in parola ".

BIBLIOGRAFIA
1) PIERANTOZZI M. in: Gorkin M., Greenson R., Searles H. F. (1992) "I Sentimenti del Terapeuta", Bollati Boringhieri, Torino.
2) CARBONE P., CUZZOLARO M. (1984) - "L'agire e il setting nel rapporto medico -paziente".Prospettive Psicoanalitiche nel Lavoro Istituzionale, 2, 1.
3) KUBLER ROSS E. (1988) - "La morte ed il morire" Cittabella.
4) WINNICOTT D. W. in Nissim-Momigliano L., Robutti A. (1992) - "La esperienza condivisa", Cortina, Milano.
5) BETTELHEIM B. (1992) - "Il mondo incantato" Feltrinelli, Milano.
6) BOWLBY J. (1989) - "Una base sicura" Cortina, Milano.
7) DI CHIARA G.: in Nissira-Mornigliano L,, Robotti A. - Op. cit.
8) DE SAINT - EXUPERY A.: (1992) - "Il piccolo Principe" Bompiani, Milano.
9) WITTEMBERG 1. (1988) in: Nissim-Momigliano L, Robotti A. - Op. cit.
10) BION W. R. in: Nissira-Mornigliano L., Robutti A. - Op. cit.




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Congresso Nazionale
OTTICA SISTEMICA E CLINICA PSICHIATRICA
Vibo Valentia


Lo studio della famiglia è stato trascurato per molti anni in ambito psicoanalitico, anche se già Freud (1921) aveva dato delle indicazioni per una visione più relazionale e sociale dello sviluppo e del funzionamento dell'individuo. Lo sforzo compiuto in tutti questi anni di usare alcuni concetti propri della psicoanalisi individuale nella terapia familiare di tipo psicoanalitico, ha portato all'uso di termini quali "apparato psichico gruppale", "interfantasmatizzazione", "mente gruppale", "meccanismi di difesa familiare" nell'intento di comprendere il funzionamento familiare (Cigoli, 1989).
Dopo gli anni '70, in campo psicoanalitico si è sviluppato un maggior interesse per una concezione relazionale dello sviluppo dell'individuo. Winnicott (1971) afferma, in proposito, che il comportamento dell'ambiente è parte dello sviluppo personale di ogni individuo.
Kernberg, citato dalla Nicolò (1990), riconosce che i primi processi di interiorizzazione hanno caratteristiche diadiche, sono cioè interiorizzazioni non solo di un oggetto, ma di una relazione di sé con l'oggetto". '
Altri studi della scuola francese in campo etologico e neuropsicologico mettono in evidenza la reciprocità tra l'emergere del senso di sé ed il campo di relazione soggettiva, per cui si può dire con Winnicott (1971) che %l bambino crea l'ambiente come l'ambiente crea il bambino".
Per tali motivi lo studio della famiglia e del suo funzionamento diventa indispensabile, poiché la famiglia costituisce l'ambiente principale dove hanno luogo tutte le relazioni dell'individuo con l'ambiente.
Gli strumenti utilizzati per condurre il lavoro terapeutico con le famiglie sono: il setting, l'interpretazione e la relazione terapeutica. Essi hanno portato allo sviluppo di un metodo di lavoro che attinge a principi analitici (Nicolò, 1985). Il setting consente di svolgere il processo terapeutico ed è costituito da alcune costanti quali: il contratto terapcutico, che contiene tutti quei fattori spazio-temporali e tecnici necessari per costituire la cornice del setting; il setting interno, che è costituito dall'atteggiamento mentale del terapeuta.
Questi due elementi consentono all'operatore la comprensione, la descrizione e l'interpretazione del "mentale" partendo dall'uso dei dati percettivomotori ed emotivo-rappresentazionali del pensiero. li tutto costituisce, poi, specifico oggetto di ricerca e di apprendimento nella formazione dello psicoterapeuta.
La relazione terapeutica va vista a vari livelli. Essa è una relazione a due poti: da una parte c'è la famiglia che viene con la propria storia e con i propri compiti, relativi al particolare stadio di vita in cui si trova; dall'altra vi è il terapeuta o la coppia terapeutica che ha una storia, una specifica preparazione e orientamento e, se è una coppia stabile, esperienze da tempo condivise, contesto di lavoro comune e vari problemi conflittuali che si creano all'interno della coppia o in rapporto agli altri colleghi.
Tutto questo costituisce valore di fattore trasformativo non solo nella famiglia, ma anche nel terapeuta.
Infatti il terapeuta è un membro interagente anche se ad un livello diverso.
Nella seduta vi è la presenza reale dei membri della famiglia, oltre che i suoi fantasmi, e quindi si hanno relazioni reali nel "qui ed ora", che possono subire, nel corso delle sedute modificazioni imprevedibili.
Il terapeuta stabilisce una relazione emotivamente significativa con la famiglia e questo gli consente una mediazione tra livello individuale e familiare, oltre che lo sviluppo di capacità riflessive e di pensiero (Nicolò, 1985).
Con l'interpretazione, lo psicoterapeuta fa in modo, successivamente, che tutto quello che viene comunicato acquisisca significato, in modo da far accettare esperienze altrimenti vissute come intollerabili. Quindi, assumerà per la famiglia e per ciascun componente il ruolo, sia di un oggetto reale, sia di un oggetto fantasmatico (Nicolò, in corso di pubblicazione).
In questo contesto assume particolare valore un altro livello di analisi: il transfert e il controtransfert che si crea nel corso della relazione con la famiglia. Il transfert è un fenomeno universale che si verifica in tutte le situazioni di vita, anche non terapeutiche, ma nella storia della psicoanalisi esso ha assunto diversi significati fino a quello attuale che lo considera come il fulcro su cui si incentra tutta la situazione analitica.
Il transfert è "tutto quello che viene proiettato sul terapeuta e vissuto in relazione a lui ed al setting attraverso le fantasie inconsce che accompagnano l'esperienza pazìente/terapeuta" (Box e coli., 1985).
E' un evento che scaturisce nel presente poiché la famiglia riproduce con lo psicoterapeuta le proprie modalità di funzionamento relazionale in cui il terapeuta si trova inserito e con cui è costretto a confrontarsi. Come dicono Box e coli. (1985), "anche se viene presentata la patologia del paziente, tutti i membri della famiglia hanno un punto d'incontro nel loro mondo interno comune che comporta l'esistenza di angosce comuni".
E ancora, "elaborare il transfert familiare significa comprendere il transfert comune considerando ciascuno come parte di tutto un sistema, implicato in una relazione congiunta e inconscia, non solo reciproca, ma ritira La anche al terapeuta". La famiglia agisce sul terapeuta attirandolo nel suo sistema difensivo o tentando di spingerlo ad agire invece che a comprendere. Essa tende ad agire verso il terapeuta modalità relazionali che traggono la loro origine da esperienze non elaborate e non pensate.
Solo il terapeuta può comprenderle, partendo dall'analisi del proprio controtransfert.
E' quindi inevitabile il sorgere del controtransfert in risposta al transfert: sono le risorse del sistema terapeutico che consentono di mettere in moto il processo (Nicolò, 1983).
La famiglia porta aspetti dispersi, confusi o scissi al terapista ed egli deve funzionare come contenitore di questi aspetti non comprensibili del sé per restituirli in modo comprensibile (Box e coli. 1985).
Il controtransfert si può considerare, allora, come l'insieme di sentimenti e reazioni inconsce che il terapeuta vive in rapporto al paziente, ma, specialmente, al suo transfert. L'analista lo usa per comprendere il paziente, partendo da ciò che accade in lui come oggetto del transfert e, quindi, dalla percezione di sé come oggetto dell'identificazione proiettiva del paziente.
L'analista si può identificare, in parte, come oggetto interno al paziente e così si sovrappone all'oggetto interno proiettato dal paziente.
Dal riconoscimento di questi fenomeni, come dice la Segal, citata da Box e coll. (1985), l'analista può produrre l'interpretazione del mondo fantasmatico del paziente e darla nel qui e ora della seduta, favorendo - a partire da questo punto - la trasformazione del rapporto all'interno della coppia analitica.
Il controtransfert in terapia familiare è dato dalle reazioni emotive del terapista alla famiglia, sia nei confronti dei singoli membri, sia nei confronti con la famiglia come sistema ed, infine, coi singoli come sottosistema (Nicolò, 1983). Sussiste per il terapeuta il rischio di immettere una parte di sé, oppure di metterla da parte. Egli può vivere i membri della famiglia come sostituti simbolici di personaggi del suo passato o può inconsapevolmente identificarsi con una parte del sistema. E' solo filtrando le proprie emozioni e lasciando arrivare alla famiglia quelle legate ad un'ipotesi interpretativa che può raggiungere l'obiettivo di produrre un cambiamento utile alla terapia.
La capacità del sistema terapeutico di elaborare emozioni provenienti dal sistema familiare e di restituirle con modalità basate sull'ascolto e l'interpretazione, oppure l'impegno comportamentale del terapista in seduta (così come lo abbiamo delineato), favorisce la possibilità di far circolare - come dice Fissi (1986) - "affetti e realtà psichiche rimaste in ombra e proiettate, permettendo alla famiglia ed ai singoli individui di riappropriarsene. La terapia nasce da questa circolarità ed evolutiva di un processo che coinvolge insieme famiglia e terapista".

BIBLIOGRAFIA
1) S. Box, B. Copley, J. Magagna, E. Moustaky (a cura di) (1985): Psicoterapia familiare. Un approccio psicoanalitico. Liguori, Napoli.
2) V. Cigoli (1989): La connessione relazione-persona quale pietra d'angolo della terapia familiare. Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale. 7, 3, 331.
3) F. Fissi (1986): Legittimità e deIimitazione del concetto di controtransfert in terapia familiare. Terapia familiare, n. 21.
4) S. Freud: cit. da Nicolò (1983), cit. avanti.
5) 0. Kerneberg: in A.M. Nicolò (1990), op. cit.
6) A.M. Nicolò (1983): Sull'uso del controtransfert in terapia familiare: spunti per una discussione. Terapia familiare n. 13.
7) A.M. Nicolò-Corigliano (1985): Comprendere la famiglia: un'ipotesi interdiscipli- nare, in Terapia familiare n. 19.
8) A.M. Nicolò-Corigliano (1990): Verso una prospettiva psicoanalitica per lo studio della famiglia e della coppia in Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzioale 8, 1, 25.
9) A.M. Nicolò-Corigliano, P. Pede, C. Spinelli (in corso di pubblicazione): Specificità nella tecnica della psicoterapia psicoanalitica con la famiglia. Rivista Oltre lo specchio.
10) H. Sega], cit. da Box e coll., op. cit. 11) D.W. Winnicott in: A.M. Nicolò (1990), op. cit.

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