Dott.ssa Antonella Scalise Psicoterapeuta
Psicodinamica e Relazionale - Specialista in DCA
COMUNICAZIONE COME SENTIMENTO NEL RAPPORTO MEDICO-ASSISTITO
COMUNICAZIONE COME SENTIMENTO NEL RAPPORTO MEDICO-ASSISTITO
THE COMMUNICATION AND FEELINGS IN THE DOCTOR-PATIENT RELATIONSHIP
La “Comunicazione come sentimento nel rapporto medico-assistito” affronta la necessità, oramai ineludibile, nel
“Piano di Umanizzazione Aziendale”, che la medicina moderna non si esaurisca in una fredda prestazione tecnologica o in un intervento sulla malattia e sul malato.
É necessario, infatti, che il medico vada oltre alla ricerca di un rapporto più empatico ed arricchente. In questo modo il “passaggio in ospedale” potrà diventare un’occasione di umanità non solo per il malato e chi lo accompagna ma anche per i curanti ed, in genere, per quanti credono e vogliono una medicina più a misura d’uomo
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“The communication
and feelings in the doctor-patient relationship” addresses the need, now unavoidable, in the "Humanizing Business Plan", that modern medicine does not end on a cold technological performance or assistance for disease and for patient.
It is necessary, in fact, that the doctor goes ahead to the search of a more empathetic and enriching contact. In this way the “transit in the hospital” can become an opportunity for humanity, not only for the sick and those who accompanies him but also for doctor and, in general, for those who believe and want a medicine more on a human scale.
La comunicazione nel
processo di umanizzazione delle cure
La generazione di
medici formatisi nel '900 ha visto via via mutare il modo di rapportarsi nei
confronti dei pazienti: dall'autoritario quasi sciamanico al paternalistico con
pacca sulle spalle e, infine, all'attuale approccio tecnocratico in cui
prevale il rapporto con le macchine più che con la persona assistita.
Lo psichiatra
francese Patrick Lemoine, nel suo Le mystere du placebo, si domanda: «Che
cosa chiede innanzitutto un malato al suo medico?». La risposta è che: «contrariamente
a quanto si può pensare, non scienza e notorietà, ma gentilezza e disponibilità».
In questa ottica
il tema dell'umanizzazione delle cure nelle varie aree risulta oggi, come non
mai, di grande attualità. L’umanizzazione va intesa come attenzione alla
persona unica e insostituibile nella sua totalità fatta di bisogni organici,
psicologici e relazionali e con un suo specifico contesto. Focalizzare,
pertanto, il malato come essere umano e dialogare con lui consente di
apprendere la forza e la debolezza del nostro trattamento ospedaliero.
Riportare al
centro dell'interesse medico la Persona, in tutta la sua dignità e completezza
psicofisica, consentirebbe di riscoprire gli antichi valori culturali che
avevano fatto della missione del medico, come dice Baiotti [1], «una
delle professioni più belle, affascinanti e difficili».
- Bella:
perché è insito
nella mente umana il desiderio di aiutare chi soffre.
- Affascinante:
poiché la
malattia è sempre avvolta da un velo misterioso diverso da persona a persona.
- Difficile:
in quanto ci si
muove su un terreno inesplorato e infido.
L'Humanitas è il
tratto che da sempre aveva caratterizzato la figura del medico “dal luminare al
medico condotto”, fonte di conoscenze scientifiche il primo e competenze pratiche
il secondo.
L'umanizzazione
della medicina dovrebbe riportare in parametri più umani questo rapporto: non
autoritario ma autorevole, non paternalistico ma partecipativo, non
tecnocratico ma professionale.
Questo rapporto
deve seguire una propria etica che porti ad un contatto paritario tra la
Persona Assistita e la Persona Medico, in quanto l'essenza della medicina non
risiede solo nell'ultimo sofisticato apparecchio diagnostico né nella
recentissima scoperta genetica, ma anche nell'eterno confronto uomo-uomo.
La carenza di
umanizzazione è, infatti, un tema forte nelle segnalazioni dei presunti errori
medici.
Spesso questi non
si rivelano casi di malasanità ma sono il frutto di una cattiva comunicazione e
di un rapporto conflittuale tra cittadini e personale sanitario.
L'umanizzazione
dell'assistenza investe numerosi ambiti tra i quali: prendere in carico il
cittadino nel percorso di cure, curare la relazione tra professionisti
sanitari, pazienti e familiari ed assicurarsi la trasparenza dell'accessibilità
delle informazioni.
Un cambiamento
paradigmatico si è avuto nella medicina negli ultimi 30 anni. Il paradigma
biomedico meccanicistico riduzionistico, per molto tempo, ha fornito risposte
adeguate in ambiti settorializzati ma non ha avuto la stessa efficacia rispetto
a problemi con una valenza sistemica. Ha subìto pertanto un tracollo che ha
portato a fare emergere, anche in medicina, un'ottica sistemica con la
configurazione di un modello bio-psico-sociale, indispensabile per comprendere
le complesse relazioni che influenzano il nostro benessere e la nostra salute [9].
Il campo di azione
del paradigma bio-psico-sociale è la promozione della salute; definita dall'Oms
come un processo di empowerment di cui la salute psicologica costituisce
un aspetto fondamentale applicabile agli individui, ai gruppi, alle comunità e
alle istituzioni.
Già Balint
psicoanalista ungherese, negli anni 60, presentava la relazione del medico con
il suo paziente come uno strumento terapeutico per cui decise di formare i
medici di famiglia considerati asse portante del sistema sanitario nazionale
inglese [2].
La sua scelta di
lavorare con loro rispondeva al suo intento di raggiungere la “globalizzazione”;
una visione il più possibile integrata della malattia all'interno della persona
e della famiglia. Anche l'elemento tempo aveva, nella scelta di Balint, la sua
rilevanza. La possibilità che un medico di famiglia potesse seguire i suoi assistiti
nell'arco di diversi anni rappresentava uno straordinario osservatorio per
rintracciare i percorsi nelle storie di vita e di malattia, nonché gli esiti di
interventi attuati sia a livello farmacologico che di relazione.
Il nostro medico
di base, purtroppo, è incastrato all'interno di un sistema che impone una
clientela numerosa e che estranea entrambe le parti da un rapporto fiduciario e
continuativo e per il rinvio facile e frequente allo specialista. Quest'ultimo
prende in carico il paziente per la parte che gli compete, attuando un processo
di parcellizzazione contrario alla “globalizzazione” attesa da Balint. «Eppure»,
come scrive P. Carbone, «anche se l'entusiasmo espresso da Balint, non è più il
sentimento prevalente, abbiamo appreso l'arte della pazienza e lentamente e
silenziosamente le sue scoperte continuano ad incidere e ad influenzare il
percorso della medicina moderna» [2].
Oggi mente e corpo
sono comunemente considerati componenti solo concettualmente distinte nella
rappresentazione di un unico organismo.
La malattia è
vista come il risultato della interazione di fattori individuali, psicologici,
comportamentali e sociali sui quali gli individui possono influire
responsabilmente qualora vengano efficacemente aiutati ed incoraggiati dai
professionisti della salute capaci di offrire un valore aggiunto rispetto agli
obsoleti profili professionali del passato, per cui anche in medicina malgrado “sacche
di resistenza” prevale il paradigma bio-psico-sociale come modello di
riferimento sistemico.
Le crescenti
acquisizioni in campo tecnologico e scientifico che permettono di trattare, oggi,
anche patologie una volta incurabili, non possono essere disgiunte nella quotidianità
della pratica clinica e dalla necessaria consapevolezza dell'importanza degli
aspetti relazionali e psicologici dell'assistenza, con l'emergere di un ruolo
centrale nel processo terapeutico di un supporto umano e personalizzato.
Per Galimberti lo sguardo
medico deve saper vedere il malato e non la malattia: uno sguardo che ascolta e
risponde con empatia è ben altra cosa di uno sguardo che osserva passando di
corpo in corpo eludendo il contatto visivo, dando al paziente la penosa
sensazione di non essere visto, di non esserci come persona ma solo come parte
o organo malato, con la conseguente amplificazione della sofferenza [3].
Gli aspetti che
invece richiedono un ulteriore ampliamento della visuale rispetto al rapporto
medico-assistito, responsabili di problemi relazionali differenti e nuovi, sono
le dilatate possibilità di intervento che pongono il curante di fronte a scelte
estreme con l'assunzione di un potere al limite della tollerabilità umana:
pensiamo, per esempio, alle tecniche di ingegneria genetica o alla scelta di un
malato per un trapianto d'organo.
Nella gestione di
tali tecniche, il funzionamento mentale del medico è gravato emotivamente dal
peso di una smisurata responsabilità con lo sconfinamento nell'onnipotenza e nella
perdita del limite.
Un altro ordine di
problemi riguarda il fatto che il rapporto medico-assistito non è più duale ma
avviene all'interno di una istituzione animata dalle complesse leggi che
dominano i gruppi e dalle angosce profonde di morte con cui il curante deve quotidianamente
confrontarsi, considerando che «il successo e la vitalità di una Istituzione
sono intimamente connessi con le tecniche che vengono usate per contenere le
ansie» (Menzies I., 1970).
Tutti questi
aspetti e queste dinamiche influenzano fortemente la relazione medico-assistito
che possiede intrinseche valenze terapeutiche.
È quindi
fondamentale costruire relazioni come ponti tra le persone che vanno
consolidati, potenziati e migliorati, utilizzando la comunicazione, che dal
punto di vista etimologico, significa “mettere in comune, confrontarsi,
condividere una parte di noi stessi con l'altro”.
La comunicazione
efficace non è la semplice trasmissione di messaggi, ovvero l'informazione, ma
la capacità di utilizzare una dimensione emotiva che crea la relazione
attraverso il riconoscimento dell'Altro, dei suoi bisogni e delle sue
aspettative.
Vale la pena di
ricordare che quando si parla di comunicazione lo strumento della parola è
molto meno influente del non-verbale, ovvero della trama muta di ogni interazione,
per cui ciò che si dice acquista senso e significato per come lo si
dice perchè sottende il “sentire”, consapevole ed inconsapevole.
Le emozioni, in
certe fasi e situazioni, possono diventare insostenibili, ecco perchè parlare
ad un altro di un vissuto che tormenta, già di per sé, il più delle volte fa
sentire meglio.
L'importanza del
dire a qualcun altro ciò che si ha dentro dà a questo “dire” consistenza e
significato. Se questo è sempre vero, lo è in modo più significativo e
pressante quando la persona soffre oppure ha un disagio. Le risposte emozionali
sono pertanto il frutto diretto del significato che attribuiamo agli eventi che
ci accadono intorno e, contemporaneamente, rappresentano la matrice che produce
ed innesca reazioni e significati nei nostri simili.
Spesso, pertanto,
le emozioni dell'altro attivano contenuti emotivi equivalenti
nell'interlocutore suscitando di volta in volta comprensione empatica o rifiuto
se le emozioni in gioco sono disturbanti o soverchianti.
Tenendo conto
delle condizioni reali delle situazioni (economiche, culturali, umane, ecc.) si
potrebbe identificare una visione ideale-realistica della cura in cui la comunicazione
gioca un ruolo immenso.
In fondo al cuore
dell'etica biomedica c'è un'etica della comunicazione che rende a ciascuno un
po' della sua identità, della sua umanità, una dignità che è qualità della vita
personale.
Oggi la
comunicazione efficace non è più un elemento facoltativo della relazione medica
ma una sua condizione intrinseca, necessaria, etica e legale, oltre ad essere
un elemento importante per la qualità di vita di tutti i partecipanti.
^^Top^^
La relazione
medico-assistito
L’ammalato può
vivere, per es., la malattia come minaccia di annientamento e perdita di sé. La
relazione con il curante ha la funzione di compensare questa angoscia
instaurando un nuovo e intenso attaccamento nei confronti del medico che
ricalca aspetti del rapporto con le figure genitoriali.
Il medico può
svolgere questa funzione di restauro dell'unità e immagine del sè del malato se
la relazione è sufficientemente valida consentendo al curato il recupero della
propria autonomia. L’insieme delle cure, incluse quelle farmacologiche, risente
della qualità della relazione al punto da farle risultare estremamente efficaci
o, al contrario, limitarne l’effetto.
Non si sta
auspicando la trasformazione del medico in uno psicoterapeuta ma della necessità
di riconoscere l'esistenza, nella pratica clinica, di atteggiamenti adeguati e
spontanei come l'atteggiamento supportivo, esplicativo e contenitivo che
possiedono intrinseche e generiche qualità psicoterapiche. Da questo punto di
vista la pratica clinica, anche nella medicina generale, può costituire un
primo livello psicoterapico aspecifico ma efficace ai fini terapeutici.
Questo ruolo può
essere svolto se il medico funziona da contenitore delle angosce del suo
assistito, se possiede sufficienti capacità empatiche e di identificazione, se
riesce a confrontarsi con il dolore, con la morte, la consunzione ed il fluire
delle emozioni che la relazione con il malato propone.
In caso contrario
possono allora comparire barriere emotive quali la razionalizzazione, con cui
vengono enfatizzati e ritualizzati gli aspetti tecnici, o la negazione che
smorza le angosce del paziente e del medico il quale si difende con
rassicurazioni funzionali allo scopo di mantenere le distanze dall'area
perturbante insita nella malattia e, soprattutto, nei vissuti di malattia
dell’ammalato.
Un paradosso che
sembra riscontrarsi nella pratica clinica è il seguente: più il medico è
preparato sul piano tecnico, più sa ascoltare e curare il corpo e meno è
disponibile a cogliere la complessità della vita psichica del proprio paziente.
Questo paradosso può essere legato alla scarsa familiarità del clinico con la
semeiotica psicopatologica ma la mancanza di disponibilità all'ascolto emotivo
del proprio paziente e le resistenze che si incontrano di fronte alla
sofferenza psichica sono così intense da far pensare all’uso di massicce difese
verso queste emozioni [4].
Di fatto, l'unica
possibilità per non arroccarsi in difese a tenuta stagna, per contenere e
tollerare il coinvolgimento con il paziente che in certi casi può essere molto
frustrante, è la possibilità di disporre di una discreta capacità di
introspezione e conoscenza di sè, unita ad una sostanziale disponibilità
empatica.
Nella pratica
clinica, Rossi evidenzia, come il distacco professionale potrebbe servire a
coprire il rigetto per la sofferenza psicologica dell'altro, ma anche il timore
di una invasione dalle angosce di morte e di inguaribilità, vissute come non
gestibili, quindi destrutturanti e pericolose. D’altro canto un'eccessiva
sollecitudine può essere quasi una formazione reattiva, come inversione di un
sentimento di impazienza, irritazione e insofferenza per il malato.
Un rapporto
improntato al freddo tecnicismo, centrato non sulla persona ma sul “caso
clinico”, potrebbe implicare un isolamento emotivo dell’operatore, con
sterilizzazione della sofferenza e delle componenti emotivo-affettive, fino all'ottimismo
di negazione, che indica l'estrema impermealizzazione del medico alle angosce
del paziente.
Nella pratica
clinica emerge l’esigenza di riconoscere i linguaggi di piani diversi del corpo
e della mente e di ricostituire possibilità di passaggio, perchè lo stesso
linguaggio del corpo può esprimere un dolore mentale, data l'inestricabilità di
disturbi fisici e relativi vissuti.
La nostra lingua,
per es., è ricca di metafore che riguardano il cuore come organo per indicare
un coinvolgimento emotivo intenso: “mi colpisci al cuore ... mi si spezza il
cuore”.
Il simbolismo del
dolore al cuore, del peso sul cuore, diviene in certi casi, estremamente
concreto: nel caso di alexitimia, di una scarsa possibilità di mentalizzazione
delle emozioni e della loro comunicazione, questo simbolismo può diventare
dolore toracico.
Nella pratica
clinica ovviare ai limiti nella gestione dell’assistito, da parte del medico,
richiede un clinical managing globale del paziente stesso, che non può
prescindere dalla possibilità di instaurare una valida alleanza terapeutica.
Anche se la
terapia è essenzialmente farmacologica, una buona relazione medico-assistito,
evita quello che viene chiamato non compliance, che ha a che fare non
solo con i dubbi e le paure del malato riguardo al farmaco, ma soprattutto alla
labilità e insicurezza della relazione con il medico.
Una buona
relazione difficilmente risente della mancanza di compliance, perchè è
possibile, per l’assistito, elaborare e discutere dei propri timori, riducendo
così i rischi e le eventuali menzogne relative all'assunzione del farmaco.
La buona relazione
non può prescindere per il medico dall'interrogarsi sulle proprie scelte
professionali, sui propri bisogni e, quindi, dal possedere una certa
introspezione.
Molte relazioni
difficili sono legate alla difficoltà di tollerare, da parte del medico, che il
paziente non guarisca ma l'interesse per l'uomo deve rimanere una delle qualità
essenziali del medico in quanto «il segreto della cura del paziente è averne
cura» (Sir Francis Peabody).
La funzione
principale di chi si occupa dell'educazione alla salute è dare un'opportunità
di esplorare e modificare stili di vita per ottenere un più elevato stato di
benessere. Il medico, in tal senso, può essere definito un counselor,
cioè colui che aiuta le persone ad aiutarsi [5].
È necessario
quindi un vero cambio di sintonia attivando un ascolto più emotivo e ricettivo
che lasci piangere, raccontare e ricordare. Al medico viene richiesta una
funzione di contenitore, come il significato etimologico del termine
suggerisce, un recipiente che accetta il contenuto lo accoglie e non lo
deforma, contrariamente alla risposta del medico giudicante, direttiva, che
parla e non ascolta
Offrire una presenza,
oltre che un intervento, rientra nella funzione di contenitore, molto difficile
da acquisire ma molto più difficile è riuscire a mantenere l’integrità del
contenitore stesso affinchè non venga inquinato dalla propria emotività ma riesca
a comunicare la propria empatia ed essere sintonizzati sul livello emotivo del
paziente. Un sostegno emotivo appropriato favorisce una prognosi medica
positiva anche in casi particolarmente gravi.
Si aumenta la
consapevolezza del paziente con un'attività di comprensione e chiarificazione
del problema presente, non forzando, però, i tempi di maturazione soggettiva.
Tra medico e paziente si crea una relazione d'aiuto, modo delicato per indicare
un intervento di supporto allo sviluppo del sè e delle proprie motivazioni, ma
è anche una relazione in cui uno promuove la crescita dell'altro, come il
rapporto tra terapeuta e cliente, insegnante/allievo, genitore/figlio. L'aiuto
fornito non si basa, infatti, sull’impostazione dogmatica di diagnosi e terapie
ma sull' approccio empatico e rispettoso.
Occorrerebbe
riproporre ancora, una preoccupazione in linea con quella “preoccupazione
materna primaria” che consiste non solo nelle attenzioni materiali e nel
contenimento affettivo, ma anche nel creare un equilibrio, tra indifferenza e
angoscia di allarme, rispetto a quando ci si deve preoccupare [6].
È attraverso
queste esperienze che vengono accolte e restituite al bambino le angosce
primitive, a volte attenuate e rese pensabili, a volte incrementate dalle ansie
materne. Nello stesso modo si possono confortare, accogliere i pazienti o
lasciarli alle loro angosce e confusione amplificate dalla indifferenza del
medico.
In questa
direzione si apre un'attuale tematica relativa al consenso informato, riguardo
il cosa, come, quando dire la verità (ammesso che la si conosca) agli ammalati
sulla loro condizione patologica.
In questo senso
anche il momento diagnostico nasconde molte insidie, non solo legate al campo
degli errori, delle imprecisioni o della incompletezza ma a volte anche una
diagnosi giusta non meno di una sbagliata può avere, comunque,
un'azione negativa se viene formulata e consegnata al malato al di fuori del contenimento
di un rapporto umano, sottovalutando l'importanza dell'aspetto psicologico,
come soggettività del curato.
Un concetto
diffusamente utilizzato in medicina è, infatti, quello di “eventi stressanti”
che tende a minimizzare il contributo dei fattori psicologici nella malattia
facendoli coincidere con i fatti della vita. Non si tiene così presente
che le vicende hanno un peso non come fatto in sè ma per come viene
vissuto dai protagonisti. In tal senso nessun fatto diventa storia se la
persona non possiede adeguate capacitá elaborative, per cui anche eventi minimi
possono essere devastanti, mentre vicende anche gravi possono essere
opportunamente compensate se ci sono le condizioni personali e le circostanze
favorevoli per farlo.
^^Top^^
L’ammalato ed il
vissuto di malattia
Generalmente
l'evento di una malattia nella vita di una persona rappresenta uno strappo
nella trama della sua esistenza, a volte un vero e proprio sconvolgimento della
continuità, dei suoi ritmi evolutivi e della sua organizzazione sociale ma, al
tempo stesso, può essere l'occasione di un grande cambiamento con il recupero
di parti di sè negate che possono promuovere lo sviluppo di una maggiore
vitalità.
Gli eventi che
attengono al corpo, le sensazioni e le fantasie che lo riguardano rappresentano
l'origine stessa dell'attività mentale ed il corpo funziona, per così dire, da
cerniera e da intermediario tra il mondo interno e il mondo esterno, fra sè e
l'altro o gli altri [7].
«Il corpo (come
diceva Proust) è anche l'unico mezzo che abbiamo per andare al cuore delle
cose».
Poter parlare
della malattia consente di inserirla in una rete di significati che le tolgono
il carattere di fattualità intrasformabile.
È necessario considerare
in modo correlato, secondo una visione binoculare, il corpo malato e la
mente che lo pensa, non esclusivamente in un contesto psicoterapeutico. Questa
considerazione è sorretta, infatti, dall’osservazione dei processi mentali,
delle fantasie, delle emozioni e delle ansie che emergono e si manifestano
nelle persone che si ammalano.
È esperienza
comune che nella descrizione della propria malattia, dalle situazioni più
semplici e favorevoli a quelle più gravi, ogni persona ammalata propone,
insieme e all’interno degli aspetti clinici che la riguardano, rappresentazioni
ed elementi fantastici relativi a se stessa ammalata.
Affrontare
l'evento morboso, dando anche spazio a tutto il corredo emozionale che
l'accompagna, significa riconoscere, condividere ed affrontare tali elementi ed
il disagio psicologico conseguente.
Nelle persone
ammalate generalmente emergono antiche e dismesse modalità di funzionamento
mentale e di reazioni emotive per far fronte alla preoccupazione e alla pena
che il sentirsi ammalati comporta. Il ripristino di antiche e regressive difese
è attivato da una pena psichica che non è altrimenti sopportabile, legata a
sentimenti, fantasie ed ansie, spesso altrettanto primari come quelli connessi
ad una trasformazione terrorizzante di sè, dalla perdita di parti e funzioni
del proprio corpo fino all'annichilimento ed alla morte.
Tali difese
dipendono, ovviamente in grado diverso e con varie modalità, dalla storia,
dall'ambiente di vita delle persone ammalate e dalla specificità della stessa
malattia. Tali fantasie rintracciabili all'inizio della vita o nei momenti
delicati di passaggio, come nell'adolescenza, si riattivano quando si rompe
l'equilibrio psichico in occasione del manifestarsi e della scoperta di essere
affetti da una grave malattia.
Quando, all'inizio
della vita, la sfera corporea e psichica sono confuse (perchè la mente non è
ancora sviluppata), sul corpo si scaricano angosce relative a sensazioni e
sentimenti primitivi non sufficientemente elaborate. La mente ricevente della madre
accogliente permette a questi contenuti di essere riconosciuti, bonificati e
rinviati al bambino consentendogli così di sviluppare la capacità di comunicare
e di pensare. Appare evidente, fin dalle tappe più precoci della vita, quanto
sia importante la comunicazione interpersonale attraverso la quale un evento
somatico nel bambino diventa una manifestazione ed una comunicazione del suo
stato somato-psichico, accolto dalla madre come una richiesta di aiuto e di
ascolto.
È possibile
mantenere l'analogia tra le prime modalità comunicative del bambino e quanto
succede nel corso di una malattia che rappresenta un momento critico nella vita
di una persona. Se il curante diventa contenitore delle sue sofferenze, può
essere percepito come “oggetto amichevole che dà salute” (Bion, 1978).
La persona
ammalata, se ha l'opportunità di comunicare e di essere compresa da colui che
l'aiuta, continua ad usare la mente e a dare un significato alle sue
sofferenze, evitando di appiattirsi sul soma percepito come un qualcosa di
estraneo e minaccioso perché, in caso contrario, non ci sarebbe possibilità di
trasformazione e riconoscimento emotivo, al di fuori del rapporto consolante
con un'altra persona [7].
La malattia va
intesa, quindi, come necessità di cure non solo per un corpo malato, ma implica
l'accostarsi ad una persona ammalata nella sua indivisibilità e complessità.
Questo generico
sostegno psicologico, implicito nella comunicazione/relazione curante-curato,
dovrebbe essere il fondamento dell'organizzazione delle istituzioni e degli
ospedali che le accolgono.
Una struttura
sanitaria dovrebbe, infatti, essere capace di disporre di uno spazio per es. di
counseling o di discussione sia per i curanti sia per gli ammalati, nel quale
possono trovare posto, essere riconosciute e rese leggibili le emozioni, anche
quelle molto primitive, impensate e impensabili prima dell'insorgenza della
malattia stessa che rappresenta una crisi nella vita.
Questa crisi
appare caratterizzata da angosce di perdita e di separazione che si presentano
con un particolare carattere di concretezza, molto limitante rispetto alla
possibilità di una trasformazione, per cui la mente rischia di collassare sotto
il peso degli eventi fisici oppure di essere totalmente occupata e invasa dal
loro pensiero.
^^Top^^
Il vissuto del
medico
Uno studio
condotto in un'Azienda Ospedaliera del Centro Italia evidenzia quanto sia
importante gestire le emozioni per modulare la relazione esistente tra la
percezione dell’organizzazione di un servizio ed il burnout degli
operatori sanitari [8].
La gestione delle
emozioni è considerata come una parte di lavoro fondamentale nelle professioni
di aiuto. La quotidiana interazione con i pazienti, i parenti, i colleghi e i
superiori richiedono adeguati livelli di coinvolgimento emotivo ed empatico che
molte volte diventa difficile controllare.
Il burnout
costituisce l'indicazione della crescente difficoltà di gestire adeguatamente
le proprie emozioni quando si interagisce con l'utenza. La ricerca evidenzia la
necessità di monitorare lungo tutto l'arco della vita lavorativa dell'operatore
le sue capacità di regolare gli affetti, in particolar modo nei reparti
caratterizzati da intense transazioni emotive operatore-assistito.
Anche dal punto di
vista dell’operatore il tratto alessitimico, come incapacità a riconoscere e
comunicare le emozioni, è strettamente collegato con la dimensione del burnout,
ovvero con la sensazione di essere “prosciugati” emotivamente,
depersonalizzati, rendendoli indifferenti e freddi nei riguardi degli utenti.
Si aggiunge, inoltre, la spiacevole sensazione di non sentirsi realizzati nè
nel proprio gruppo di lavoro nè dalla qualità delle proprie relazioni .
La partecipazione
emotiva, invece, lungi dal corrompere la ragione ne esalta le proprietà
curative, nel senso che consente al rigore del metodo scientifico di richiedere
il massimo da se stesso, senza rinunciare a sè, ma sempre in movimento ed in
azione con forza e sforzi. Là dove occorre che la comunicazione si manifesti
nel suo senso più profondo (nonchè etimologico) di con-dividere, mettere
insieme reciprocamente, farsi carico di un comune benessere.
Si potrebbe
pertanto affermare che senza relazione non c'è cura.
Per capire come la
comunicazione migliori la qualità della pratica medica bisogna considerare il
contesto globale della cura e sostenere con Paul Ricoeur che la cura medica
poggia sempre su tre tipi di partners:
- la
preoccupazione di sè;
- la
preoccupazione per l'altro;
- la
preoccupazione per gli altri.
L'attenzione a sè
comprende il rispetto dei propri valori personali, del senso della propria vita
e del proprio lavoro.
La preoccupazione
per l'Altro, l’ammalato, soggetto-oggetto della cura richiede che il medico debba
avere un’autentica sollecitudine; senza dimenticare che ci sono sempre gli
altri cioè i parenti del paziente, la sua famiglia, ma anche gli altri ammalati
che si aspettano la giustizia e l'assegnazione a ciascuno di ciò di cui ha
bisogno.
La comunicazione
deve avvenire tra tutti loro, diventando una risorsa nel processo di cura e
favorendo una maggiore competenza umana e professionale attraverso l'attenzione
e l'utilizzo delle emozioni nel contesto lavorativo.
Saper comunicare e
gestire le emozioni sono tra le competenze più importanti per gli esseri umani,
perchè attraverso l'espressione dei nostri bisogni e dei nostri desideri
possiamo affrontare al meglio le situazioni più critiche e far crescere le
relazioni con chi ci sta accanto.
Gli aspetti
emotivi diventano parte integrante della terapia così come la capacità di
ascolto e di relazione acquistano un ruolo fondamentale nella cura stessa.
^^Top^^
L'ascolto
Comunicare è
imprenscindibile dal saper ascoltare, chiave del successo nell'interazione con
gli altri; l'elogio piú ricorrente nei confronti di una persona benvoluta è: «Lei
sì che ti ascolta», e quindi, «Lei sì che mi capisce».
Le persone che
ascoltano attivamente i loro interlocutori stabiliscono un rapporto bilaterale
e cordiale, chiariscono ogni malinteso e guadagnano un sincero rispetto.
L'ascolto è un
atteggiamento che offre all'altro lo spazio e l'opportunità di esplicitare i
propri vissuti in libertà in uno stato di accogliente attenzione e
comprensione. Nel rapporto con il paziente è la persona nella sua interezza al
centro del trattamento; non solo i sintomi e le disfunzioni di organi specifici,
ma sono presi in considerazione i sentimenti, le paure, le speranze dell'utente
e della sua famiglia.
Parlando sempre
più diffusamente di medicina centrata sulla persona assistita, ne deriva che
l'accoglienza e la comunicazione sono riconosciute come mezzo indispensabile
per stabilire una relazione che faciliti la fiducia, la collaborazione e la
comprensione reciproca.
La comunicazione
serve quindi a costruire relazioni, per le quali è necessaria la fiducia,
ovvero il collante che lega le persone e che permette di definire relazioni
chiare, trasparenti ed equilibrate. Fukiana l'ha definita “colla sociale”. La
fiducia, infatti, non è uno strumento di comunicazione, ma è un valore che
richiede all'operatore medico di esporsi nel rapporto con l'altro, sia nella
sua dimensione psicosociale e valoriale sia in quella professionale (competenza).
La fiducia nella
relazione è strettamente legata alla affidabilità (credere che l'altro
esegua quello che dice di voler fare), alla abilità (credere che l'altro
abbia l'abilità per fare quello che dice di voler fare) e alla integrità
(credere che l'altro sia onesto e leale) dei partecipanti.
Il concetto di
fiducia è quindi collegato con l'affidare a qualcuno (medico) qualcosa da
custodire (salute della persona). Mentre in passato la consegna era acritica e
totale, al giorno d'oggi l’ammalato desidera il controllo su ciò che ha
lasciato in custodia.
Non vi è ormai
alcun dubbio sul fatto che gli assistiti preferiscano trovarsi di fronte un
medico non solo ben preparato, ma anche disposto ad ascoltare, a capire i loro
stati d'animo e, se necessario, a lanciare uno sguardo comprensivo, a dire una
parola di conforto, ad allungare una mano per un contatto emotivo.
L'ascoltatore
empatico è in grado di percepire l'esperienza soggettiva di un altro.
L'empatia ci
richiama all'autoconsapevolezza: quanto più siamo aperti verso le nostre
emozioni, esperienze e percezioni , tanto più saremo in grado di aprirci per
accogliere esperienze, emozioni e percezioni altrui.
Dalle ricerche risulta
che l’empatia in clinica sia associata ad un esito migliore della visita e ad
una maggiore soddisfazione dei medici stessi.
C’è da chiedersi
quanto sia diffusa tra i medici la percezione che la mancanza di empatia possa
costituire un problema nel lavoro clinico quotidiano.
L'esigenza di una
comunicazione empatica si sta diffondendo sempre più, anche perchè una buona
comunicazione va a vantaggio di entrambe le parti. Si associa, infatti, ad una
maggiore compliance (aderenza dei pazienti ai trattamenti prescritti), a
una riduzione delle denunce contro i medici per malpractice (inefficienza,
negligenza, errore), e ad una riduzione dello stress professionale dei medici (burnout).
Occorrerebbe,
pertanto, che accanto alla tradizionale formazione tecnico- scientifica, il
personale medico sviluppi caratteristiche eminentemente umane: come la capacità
di darsi, la disponibilità, l'accettazione del diverso, il bisogno autentico di
comprendere e “amare” il paziente.
L'assenza di
empatia negli ambienti medici sembra essere dovuta, in Occidente, alla predominanza
della medicina sulla malattia.
Pur nella sua
efficacia, oggi, questo modello mostra il limite dovuto al cambiamento della
patologia. Rispetto a 50/60 anni fa, abbiamo più malattie croniche rispetto a
quelle acute, per cui la comunicazione si deve adeguare. Un conto è dire ad un
paziente che ha la polmonite, un altro è comunicare ad un adolescente che ha il
diabete e che dovrà seguire regole di vita per i prossimi anni.
^^Top^^
Il medico e l’adolescente
diabetico
Alla luce della
mia esperienza di collaborazione con la diabetologia pediatrica, ho avuto modo
di osservare quanto gli stessi pediatri che si occupano di bambini e
adolescenti diabetici, registrino, nell'esperienza quotidiana vissuta con i
propri assistiti, il ruolo giocato dai fattori emotivi e dalle dinamiche
familiari nella gestione della malattia.
Il controllo
metabolico del giovane assistito, infatti, può essere alterato da un elevato
livello di stress, ma le tensioni individuali e familiari tendono ad
interferire con le numerose pratiche mediche e la stabile routine che il
trattamento del diabete comporta.
Il rapporto prolungato
con i giovani assistiti, inoltre, tende a far sì che tra il medico, il bambino
e la sua famiglia si instauri un legame molto intenso. Al pediatra appartiene
il compito delicato e non certo facile, di affiancare i genitori nell’aiutare
l’adolescente a riconoscere, esprimere ed affrontare le ansie connesse alla
malattia. Il medico deve sfuggire alla tentazione di eluderle o sottacerle, per
oscurare la realtà del problema, affrontando, invece, le incertezze e le
domande che l'adolescente diabetico si pone alle soglie dell'età adulta. Deve,
inoltre, aiutarlo nel progressivo distanziamento dalla madre come momento
necessario all'auto gestione della malattia [10].
Solo un prendersi
cura e non solo un prendersi carico dell’assistito in
modo empatico ed umano permette la gestione di tematiche così delicate. Anche quando
si evidenzia la necessità e la possibilità di delegare motivando lo stesso
paziente al ricorso di un sostegno psicologico più specifico, come succede nella
mia esperienza professionale, il medico rimane mediatore significativo.
Il problema delle
emozioni, difficili da gestire, riguarda anche la varietà di risposte emozionali
e reazioni che si suscitano nel pediatra dall'incontro con l'adolescente
diabetico, per il quale l’operatore riveste una funzione centrale, non solo ai
fini terapeutici ma anche come rappresentante di una figura parentale. Il
pediatra è coadiuvante nello sviluppo psichico e nel processo di individuazione
di questi ragazzi, rispetto ai quali bisogna fare i conti con lo sviluppo
puberale e con tutte le trasformazioni corporee e le turbolenze emozionali che
comporta. La pubertà coincide, per il ragazzo diabetico, con l'inizio di una
maggiore attenzione e responsabilità rispetto alle pratiche terapeutiche, ma
anche con il rischio di adottare reazioni auto ed etero aggressive
per il rifiuto delle cure con conseguente pericolo della vita. In questi casi
l'adolescenza del ragazzo diabetico può essere “un tempo infelice per tutti”,
operatori inclusi, i quali possono sentire che il ragazzo è particolarmente
vulnerabile e bisognoso di sostegno e trovarsi spesso in una situazione di
impotenza in quanto le loro offerte di aiuto, non di rado, tendono ad essere
rifiutate.
Con il proprio
stile relazionale il medico deve comunque mediare tra l'adolescente, la
famiglia e il mondo esterno, ma anche gestire l'emergere di sentimenti
depressivi legati al riconoscimento delle scelte e dei limiti terapeutici, al
dispiacere per il destino incerto di questi adolescenti, consapevole di essere
identificato con un'immagine genitoriale e fidata.
I giovani pazienti
diabetici, che ricevono un sostegno psicologico, mi dicono quanto sia importante
che il medico risponda ai loro dubbi, ai come ed ai perché relativi
al loro stato. La risposta rappresenta un aiuto indispensabile per includere
l'evento di malattia, pur così drammatico, nella loro storia ed entrare in
contatto con affetti ed emozioni che permettano di legare insieme i tempi della
loro vita, di dare forma e significato al loro presente e al loro futuro, utilizzando
il tempo a disposizione che tocca a ognuno, a patto che la mente possa nutrirsi
e vivere.
Per questi
giovani, come per tutti quelli affetti da malattie croniche, per es. la
talassemia, esiste una interferenza reciproca tra adolescenza e malattia per
cui i normali interrogativi su se stessi, i propri rapporti e il proprio futuro
diventano più problematici.
Un’adeguata soluzione
può venire raggiunta solo a prezzo del dolore mentale legato alla
consapevolezza che li differenzia comunque dai loro coetanei; dal momento che
la giovinezza è comunemente intesa come un periodo spensierato, preludio alla
pienezza della vita e non possibile epilogo di essa. E proprio un tale costo
psicologico può essere, almeno in parte, attenuato dal mantenimento di speranze
realistiche e dalla condivisione offerta dall’équipe curante.
Inquadrare
brevemente il clima psicologico, nel quale questi pazienti sono immersi, aiuta
a comprendere la complessità delle dinamiche che il curante si trova a
fronteggiare e di cui dovrebbe essere consapevole per poter svolgere la
funzione di mediatore tra il paziente e l’esterno. Aiutarlo, per esempio, alla
conquista dell’autogestione che per il ragazzo significa emergere gradualmente
da una situazione di dipendenza nei confronti del genitore, quasi sempre la
madre, che fino ad allora ha svolto questo compito. Consentirgli di poter
esercitare un maggiore controllo rispetto ai sentimenti di impotenza
sperimentati, spesso fin da piccolo, nei confronti delle cure mediche e dei
processi oscuri ed imprevedibili che avvengono nel proprio corpo.
Il passaggio all’auto
gestione trova spinta ed alimento nella stessa crescita che porta il
preadolescente a desiderare una sempre maggiore autonomia ed indipendenza. Tale
passaggio non è, però, né facile né indolore perché risente di tutti i
conflitti tra impulsi vitali e distruttivi, incertezze e tensioni che sempre
accompagnano la conquista dell’autonomia, enormemente potenziata per
l'adolescente diabetico, che è soggetto ad una realtà, la cura, da cui
dipendono la sua salute e la sua stessa vita. In questa situazione, in cui
adolescenti e genitori sono molto coinvolti emotivamente, il pediatra può
svolgere un’utilissima funzione di mediazione e riequilibrio. Funzione che del
resto gli viene riconosciuta e richiesta, tanto dai genitori che dagli stessi
ragazzi.
Il pediatra ha,
infatti, con i ragazzi e le loro famiglie una conoscenza che è di lunga data,
soprattutto se la patologia ha avuto un esordio infantile, ed una consuetudine
profonda che deriva dall'aver condiviso momenti significativi e drammatici
dell'iter terapeutico. Ovviamente questa relazione sarà tanto più intensa quanto
più il rapporto sarà stato “personalizzato” con la presa in carico da parte di
uno stesso sanitario che segue il ragazzo dall'esordio della malattia fino al
passaggio al diabetologo degli adulti.
E questo è anche
il motivo per cui la personalizzazione del rapporto, che costituisce un fattore
di continuità ed un elemento terapeutico importantissimo, espone i medici ad un
carico molto elevato di ansie, legate anche a situazioni di impasse,
caratterizzate per esempio:
- dall’assenza dell’adolescente
che si pone come un muro, inavvicinabile, nel tentativo di evitare il
contatto con la realtà della sua malattia;
- dall’assenza del
genitore, escluso in realtà dal figlio. Egli cerca, infatti, un rapporto
diretto con il medico per ottenere una prematura gestione della malattia, che
spesso si rileva pericolosamente anarchica;
- dall’assenza di
entrambi dalla scena terapeutica, per cui genitore e figlio sembrano negare la
malattia sfuggendo il rapporto con il pediatra. Proprio in questi casi è
importante che il medico sostenga l'ansia e cerchi di ripristinare un contatto
ed una comunicazione. Nonostante che questi suoi tentativi siano spesso vissuti
come intrusivi o sembrino cadere nel vuoto o senza sortire, almeno
nell'immediato, alcun effetto.
Il riferimento ad
un gruppo di discussione psicodinamicamente orientato, com'è stato realizzato
nel Dipartimento di Pediatria della facoltà medica dell'Ateneo Federico II di
Napoli, ha mostrato di poter aiutare i pediatri a districarsi fra le complesse
emozioni e dinamiche in gioco, rendendoli consapevoli delle implicazioni
psicologiche connesse alla diagnosi e alla terapia del diabete. Altrettando
importante, si è rivelata l’esigenza di essere aiutati ad orientarsi meglio
nelle molteplici e complesse situazioni relazionali affrontate: il rapporto del
ragazzo con la malattia, fra ragazzo e genitori e fra lo stesso pediatra, il
ragazzo ed il contesto familiare.
Fra le emozioni in
gioco rientrano i sentimenti depressivi e di perdita vissuti dal pediatra stesso,
come normale risposta emotiva indotta dal distacco, per l’imminente separazione
dal ragazzo con il suo passaggio al diabetologo per adulti, dal riconoscimento
dei limiti terapeutici e dall'incertezza per le condizioni future dei propri
pazienti, come traspare dalle parole di uno dei pediatri: « … infine vi è il
distacco dal nostro Centro: i ragazzi diventano adulti e noi non possiamo più
seguirli. Quando questo accade, improvvisamente mi sembrano lontani, fanno
parte ora del mondo degli adulti. Quando penso a loro, penso alle complicanze
più o meno gravi che le statistiche dicono colpiranno alcuni di essi. Ma noi
non lo sapremo mai. Le statistiche mi sembrano solo numeri e quei ragazzi li
penso sempre come ragazzi» [11].
Un'altra
importante esperienza sulla significatività della relazione medico-paziente è
stata effettuata presso il Dipartimento di Scienze Pediatriche e
dell'Adolescenza dell'Università di Torino, nell'area della Pediatria
oncologica e del Centro per le Microcitemie [12].
La collaborazione
con l’équipe medica e operatori psicologici ha consentito di effettuare
interventi sia individuali sia di gruppo con assistiti e curanti. Questi
ultimi, infatti, regolarmente e accuratamente supportati da un supervisore hanno
offerto una disponibilità all'insegna di una sincera, se pur dolorosa
condivisione, rinforzando la stabilità dell’équipe curante e affinando
la loro capacità di comprendere e condividere.
In questi gruppi
con ragazzi talassemici e i loro medici, i giovani pazienti, per esempio ,furono
molto stupiti nell'apprendere di non essere i soli ad aver paura di morire ma
che questo problema era appartenente anche ai curanti. Questa, per loro, fu una
tappa fondamentale per la scoperta «… di non essere oggetto di studio» ma, al
contrario, soggetti di una comunicazione dove lo scambio e la condivisione
erano veramente realizzabili.
Parallelamente nei
rapporti la possibilità di condividere li portava ad attenuare i sentimenti di
solitudine e di incomunicabilità del loro stato emotivo, che implicava un
vissuto di diversità e di estraneità rispetto agli altri, passando così da una
condizione doppiamente critica, qual è la malattia cronica nell’adolescenza,
caratterizzata da una specie di annullamento mentale ed emotivo senza
possibilità di scambio e di crescita, allo sviluppo della possibilità di
pensare, condividere e comunicare partecipando così pienamente all'esperienza
umana, nel tempo della vita concesso ad ognuno di noi.
^^Top^^
Il rapporto
curato-curante: un fluire di emozioni
Il processo di
umanizzazione richiede, pertanto, lo sforzo di avvicinarsi emotivamente alle
persone in una situazione dolorosa e negativa per trovare risposte e strumenti
capaci di lenire la sofferenza che l'esperienza di malattia comporta, non solo
attraverso le tecniche ma creando e alimentando un rapporto emozionale definito
da Fosser «eroico ed umano al tempo stesso», perché l’ammalato partecipa alla
cura chiedendo al curante anche una relazione interumana e la promessa di una compagnia
di percorso, nel quale la fiducia è un elemento imprescindibile [13].
La richiesta di
umanizzazione della relazione, il controllo della malattia ma soprattutto la
consegna di sè da parte del malato, si esprime nella frase frequente :«Dottore,
decida lei» che implica sicuramente il riconoscimento di un sapere e di una
competenza, ma anche la necessità di fidarsi e di affidarsi.
É implicita una promessa
di fedeltà tra chi, come il malato è attanagliato dalla paura e dall'ansia
e chi, come il medico, porta il peso di una impossibile condivisione con l’assistito,
delle proprie incertezze e dei propri dubbi riguardo alla terapia e ai suoi
esiti, traducendosi così in un percorso dove entrambi portano carichi emotivi,
a volte per entrambi sbilanciati.
La relazione di
cura è sempre stata fortemente asimmetrica per la forza del paradigma medico
nel quale c’è chi sa, il medico, e chi ha bisogno, il malato, ma la promessa
di fedeltà implica, invece, accogliere la vulnerabilità e la fragilità che
si accompagna alla malattia e che non coincide con il consenso informato o la
comunicazione della verità. La sofferenza, infatti, non è solo una
descrizione di sintomi o un concetto, ma è un volto , una storia, una persona.
La terapia non può, di conseguenza, coincidere con un protocollo applicato ad
un caso clinico come terreno su cui si combatte utilizzando, a volte,
armi che attaccano sia il nemico sia il combattente
Per questi motivi
la cura richiede la relazione, la ricerca di un senso da restituire e la
sintonia tra biografia e terapia.
Dalla sofferenza
nasce poi la solitudine perché il malato, dipendente da un corpo che ha
bisogno, si trova ad essere consegnato a chi cura che, a volte, è assente, a
volte fa male, a volte si fa attendere.
In questo scenario
anche la propria identità si sfalda, perché la malattia è un'esperienza del
limite umano e noi non nasciamo addestrati a tollerarlo né siamo depositari di
assolute certezze, anche se le cerchiamo, per cui abbiamo sempre bisogno di
qualcuno che, come in uno specchio, ci rimandi una conferma o ci riconosca con
un nome. Se questo è sempre vero, lo è ancora di più in momenti critici della
vita che implicano, come la malattia, la condizione del limite e della
incertezza.
La malattia ha,
inoltre, un forte significato simbolico vissuta come agente persecutorio
che aggredisce dall'esterno, anche se in realtà nasce dentro di noi, si accampa
all'interno del corpo, sospendendo, in certe situazioni, la vita in un limbo
deserto nel quale si smarriscono le coordinate del tempo e dello spazio
rispetto alle quali l'essere umano si organizza.
Il tempo si condensa
in un lago immobile rendendo, nei casi più gravi, difficile il vivere quanto il
morire, mentre lo spazio occupato dal corpo, ma assediato dalla malattia,
diventa confuso perché, ad ogni controllo e ad ogni nuovo consulto, cambia
continuamente la percezione di sè, della propria fisicità, di quello che si era
e di quello che si è perduto.
«Quando la
malattia tradisce il corpo», dice Vinicio Fosser in toccanti pagine sul rapporto
continuo medico-paziente, «viene ferita anche la fiducia iniziale, quella che
il bambino provava verso la madre e grazie alla quale poteva vivere e lasciarsi
andare».
Nella relazione di
cura il medico diventa quella madre che deve rivitalizzare quel bambino inerme
e spaesato, perché possa vedere in chi gli sta accanto colui al quale affidarsi
per affrontare l'incertezza dei nuovi scenari della propria vita e,
soprattutto, nelle situazioni più rischiose, la paura e la solitudine di fronte
alla domanda:«...ma guarirò? ... Avrò tempo?...»
La malattia è
sempre corrosiva: riduce gli spazi di autonomia, la fiducia in se stessi e
implica la necessità di dipendere dagli altri.
«La relazione
curato-curante restituisce al paziente dignità, integrità e forza», continua
Vinicio Fosser, «come se la relazione infondesse al malato una straordinaria
energia, una trasfusione, nel ricostruire la dimensione materna e
comprensiva, un luogo riparato dalla mareggiate delle proprie paure, dove il
paziente ha sempre la sensazione di ricevere un'offerta di nutrimento e di
protezione».
L'aiuto migliore
che si può dare a chi soffre è proprio la speranza, il "munus
matris", il dono della madre, come possibilità di continuare a lottare e
di trovare un senso.
A volte è
necessario anche il silenzio, perché il dolore come l’amore fanno parte
dell’indicibile mistero dell’essere che non trova parole per dirlo, ma
offre solo la possibilità di esserci e di trasmettere sentimenti.
La tenerezza, per
esempio,come parte dei bisogni primordiali dell'uomo, contiene e porta aiuto e
conforto che è più dell’abilità degli atti terapeutici, nella consapevolezza
che la malattia non può essere negata ed elusa, ma che «la frequenza dell’insuccesso
terapeutico spinge chi cura a sviluppare la capacità adulta della mente, la
capacità non solo di fare... ma di pensare e di sentire...» restituendo
così dignità alla persona e forza per andare avanti.
«Dottoressa, dove
andiamo sempre nella vita, quando abbiamo bisogno o paura, se non verso casa?»,
diceva una mia paziente ,«...e la mia casa è la relazione con lei...»
La casa è sempre,
metaforicamente, un legame.
Facciamo quindi in
modo che la relazione curato-curante, attraverso, non un farsi carico ma
un prendersi cura, possa trasformarsi in un’esperienza di gratuità
umana, in un gesto responsabile verso l’Altro, così che la malattia, da barriera
o porta chiusa possa diventare un passaggio ... Questa è, infatti, un’occasione
per riflettere e monitorare con attenzione e sensibilità le proprie modalità
relazionali perché porsi in relazione significa non solo aprirsi a
comprendere l'altro, ma soprattutto mettersi in gioco.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Baiotti G. - Umanizzazione della medicina - Disponibile
da: http://www.intempo-online.com/component/content/article/29-salute/164-una-medicina-piu-umana.html
[2] Carbone P., Milana G: - Introduzione –
Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 2 - Ed. Il
Pensiero Scientifico - Pagg. 108/110
[3] http://www.tizianaromano.it/relazione-medico-paziente.pdf
[4] Rossi R., Fele P. – Incontrarsi e dirsi
addio: il fuggevole incontro tra medicina e psicoanalisi - Prospettive
psicoanalitiche nel lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 2 - Ed. Il Pensiero
Scientifico - Pagg. 112/123
[5] Prof. Mario Capunzo dell`Università degli
Studi di Salerno - Facoltà di Scienze dell`Educazione - Facoltà di Medicina.
Rapporto medico paziente, relazione d’aiuto e caregiving. Disponibile da: http://www.disced.unisa.it/personale/Docente/Capunzo/Capunzo_cattedra/Capunzo_dispense/disp%20Rapporto%20medico%20paziente.pdf
[6] Riefolo G:, Sciascera P. – Il campo della
consulenza psicologica in ospedale generale - Prospettive psicoanalitiche nel
lavoro istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg.
296/309
[7] Peluso M., Massaglia P. – Il corpo quale
luogo iniziale della vita mentale e della comunicazione. UN’esperienza di
lavoro con adolescenti talassemici - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro
istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg. 233/237
[8] Lazzari D., Pisanti R., Avallone F. - Percezione
di clima organizzativo e burnout in ambito sanitario: il ruolo moderatore
dell’alessitimia. Disponibile da: http://gimle.fsm.it/28/1s_psi/06.pdf
[9] Petrini P., Zucconi A. – La relazione che
cura 2008 – Ed. Alpes - Pagg. 373/385
[10] Adamo S. M. G., Adamo Serpieri S., Iacono
C.- Curare e prendersi cura di adolescenti diabetici. Un gruppo di pediatri e
psicologi basato sull'osservazione partecipante. - Prospettive psicoanalitiche
nel lavoro istituzionale 1993 Vol 11 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico Pagg.
251/255
[11] Adamo S. M. G., Adamo Serpieri S. - Il
percorso dell’adolescente diabetico verso l’autogestione terapeutica e la
conquista dell’autonomia psicologica. - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro
istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico Pagg. 284/294
[12] Peluso M., Massaglia P. – Il corpo quale
luogo iniziale della vita mentale e della comunicazione. UN’esperienza di
lavoro con adolescenti talassemici - Prospettive psicoanalitiche nel lavoro
istituzionale 1997 Vol 15 N. 3 - Ed. Il Pensiero Scientifico - Pagg. 238/244
[13] Fosser V. - Tra medico e paziente: un
rapporto continuo Medicina Oncologica.VII 2007 - Ed. Elsevier – Capitolo 71
Convegno di studi su
I SENTIMENTI DELL'ANALISTA
Copanello
Il lavoro terapeutico è un itinerario tortuoso e complesso molto di più oggi che in passato,
quando un
solido bagaglio teorico e la capacità di mantenere "un'olimpica neutralità"erano
considerati strumenti
terapeutici sufficientemente adeguati. Affrontando poi il mondo degli affetti nella coppia terapeutica
-
per troppo tempo escluso e trascurato perché ritenuto poco aderente al modello psicoanalitico -
si
sono dischiusi nuovi orizzonti. Infatti, citando liberamente la Pierantozzi nell'introduzione a "I
sentimenti del Terapeuta"(1), lo specchio neutrale che il terapeuta opponeva ad un paziente che
stava annegando in una tempesta affettiva era in effetti una difesa, un'indifferenza che segnalava
passione, per dirla con Proust, "l'assenza d'affetto come segnale d'affetto forte".
Ascoltare quindi il paziente e "ascoltarsi"nel rapporto con lui è uno dei cardini della
relazione
terapeutica. Il lavoro di terapia, così come la vita, accanto ai suoi aspetti più umani, creativi
ed
evolutivi, resta un lavoro crudele, per la sua necessità di esporsi ad angosce disgreganti, che
spesso
portano a dire: Ma chi me l'ha fatta fare? Angosce che devono però essere accolte, tollerate
necessariamente, vissute sulla propria pelle, se si vuole che anche l'altro le percepisca come
tollerabili e vivibili.
La favola antica di Esopo del lupo e della grù, che deve coi becco introdursi nelle fauci del lupo
per
estrargli un osso rimasto pericolosamente conficcato in gola, pur nel timore di finire divorata tra
i suoi
denti, oltre a ciò che hanno riscontrato Carbone e Cuzzolaro (2), illustra una fantasia arcaica
legata
all'intervento terapeutico, con la sensazione, a volte, di essere divorati dai pazienti - per la cui
avidità
nessun cibo affetto appare sufficientemente appagate - e con la necessità di
affrontare un viaggio rischioso, irto di
pericoli all'interno dell'altro, con cui ci si deve fondere, ma non confondere, e da cui non si sa se
si riuscirà a tornare alla realtà e quindi a separarsi e a distinguersi . Anch'io ho provato
il
desiderio di fuggire quando il mio lavoro mi ha messo a contatto con un livello di dolore mentale
che ritenevo impari e superiore alla mia capacità di tollerarlo, scatenandomi stati d'animo che
non
riuscivo a padroneggiare.
Sappiamo bene quanto dolorosi siano gli aspetti autodistruttivi dei pazienti,
le loro tragiche esperienze interne, specie quando si viene a contatto con angosce di morte! Ma
nella mia esperienza con Marta, l'intensità di questa sofferenza era estrema, perché Marta
aveva
realmente solo pochi mesi di vita, affetta, com'era, da un melanoma in fase ormai molto avanzata.
Cercherò di raccontare l'esperienza che questa donna ha condiviso con me, per il poco tempo
che le restava da vivere le sue angosce, la sua rabbia, le sue attese, le sue frustrazioni, e di come,
nonostante ciò, mi sia fatta carico della sua sofferenza che all'inizio della terapia fluttuava
tra un
rifiuto quasi costante della malattia e un costante tentativo di procurarsi la morte. Ho aspettato
molto, prima di parlarne perché alcune esperienze non si possono tradurre in parole, e anche
dopo averle vissute, ascoltate, viste, difficilmente si possono... dire. Spesso mi rendevo conto
che il senso di quella terapia ed il profondo impegno emotivo che mi veniva richiesta era di
accettare la sua angoscia di morte, non lasciandola sola con la sua collera ed il suo sdegno verso
il mondo e verso Dio, o con la sua invidia verso di me che non ero accomunata in quel momento
al suo destino, così come invece tutti gli altri che al contrario godevano ancora di quella vita
che
per lei correva velocemente verso la fine.
"Cosa può lei per una persona che stà come me ?"Era la sfida aggressiva che mi
lanciava
all'inizio dei nostri incontri. In quel momento venivo afferrata dai sensi di colpa perché lei
sapeva
che sicuramente sarebbe morta di lì a poco, ed io no. Comunque desiderava che io l'accettassi,
rendendosi conto - e comunicandomelo - del peso di cui mi faceva carico, pur non volendo che i
suoi familiari, soprattutto le sue figlie adolescenti, la vedessero disperarsi. All'inizio accettava
di
disperarsi rabbiosamente solo con me, per dirmi, però, che è assurdo accettare di morire quando
si desidera vivere, quando si ha una famiglia che si ama e quando si è raggiunta l'agiatezza che
le
avrebbe finalmente permesso una certa tranquillità. Era, infatti, semplicemente impossibile,
impensabile da accettare in quel momento per lei ed anche per me - che non avevo
assolutamente nulla da insegnare, ma solo ad apprendere - un'esperienza che oggi sembrava non
appartenermi, ma che prima o poi mi avrebbe
personalmente riguardata. Da parte mia non potevo far altro che sperare di aver tempo
sufficiente perché dalla rabbia devastante che provava potesse raggiungere un'accettazione che
le
restituisse pace e dignità.
Ed io? lo potevo solo ascoltarla, misurando tutta la mia impotenza e cercando di trasmetterle
tutta la mia compassione (nel senso di 'patire con'), anche se all'inizio quasi desideravo che non
venisse, che mi evitasse di confrontarmi con quel dolore. Alla fine però, mi ritrovavo sorpresa
nel
constatare con quanta puntualità rispettasse gli appuntamenti e mi avvertisse delle inevitabili
interruzioni dovute ai ricoveri per la chemioterapia che le davano vere crisi di panico, 'vicino alla
follia' -come lei stessa le definiva - e, infine, come provassi ogni volta che la vedevo la sensazione
che fossimo importanti l'una per l'altra.
La prima volta che la vidi si presentò come una figura pietosa, trascurata, con i capelli in
disordine, e fu un impatto sconvolgente, perché - per averla conosciuta in passato - la ricordavo
come una donna estremamente attraente e curata. Il nostro lavoro poteva essere quello di
portarla ad accettare la morte senza suicidio e senza follia. I nostri incontri durarono solo pochi
mesi e Marta passò, dalla prima reazione di rifiuto della consapevolezza catastrofica della sua
malattia, ad un'altra fase dominata da sentimenti di rabbia, invidia e risentimento. Mi ripeteva
spesso che aveva la sensazione di sentirsi 'sporca fisicamente' per cui si lavava in continuazione
senza 'liberarsi della sporcizia'.
Aveva spostato sul corpo la rabbia autodistruttiva che la invadeva senza tregua. La sua collera
veniva proiettata in tutte le direzioni e a volte quasi a caso creando notevoli problemi anche in
famiglia.
Cercai di mettermi nei panni della paziente, e mi sentii come chi si sarebbe certamente arrabbiato
se tutte le attività della sua vita fossero così prematuramente interrotte, se tutto quello
cominciato
rimanesse incompiuto o venisse finito da altri; se avessi messo da parte un po' di denaro con tanti
sacrifici per godere alcuni anni di riposo o di piacere ed all'improvviso 'tutto questo non gli
appartenesse più'.
E poi c'era il dispiacere di abbandonare il marito che amava e soprattutto le sue due figlie. Fu
parlando delle ragazze che il suo risentimento si placò, facendomi promettere che mi sarei presa
cura di loro così come stavo facendo con lei, e che, se ne avessero avuto bisogno sarei rimasta
un loro punto di riferimento. Ricordava ancora intatta, la perla provata per la perdita di sua
madre avvenuta quando aveva già una famiglia in grado di sostenerla.
Da parte mia tolleravo la fase della sua collera solo affrontando la mia paura della morte, i miei
desideri distruttivi e le mie difese.
A volte mi chiedeva quanto tempo pensassi che avremmo avuto a disposizione, e francamente le
rispondevo che si stava facendo il possibile ma che non sapevo rispondere alla sua domanda.
Smise di presentarsi agli appuntamenti dimessa, e così potei apprezzare le risorse residue a cui
dava fondo per mantenere un'immagine dignitosa che lei stessa mi faceva notare. Poi venne la
fase del compromesso, una sorta di venire a patti con la realtà nel tentativo di dilazionare il
tempo.
Mi ritrovai a negare a me stessa che il nostro tempo a disposizione stava per finire.
Poi, dopo un breve miglioramento che illuse entrambe, il tempo fini rapidamente. Non venne
all'appuntamento. La situazione precipitò costringendola a letto. Chiese di vedermi ancora ed
andai a trovarla a casa. Mi ringraziò per tutto quello che avevo fatto per lei dicendomi di sentirsi
tranquilla e di non avere più paura di morire.
Non le dissi nulla: non c'era bisogno di parole. I sentimenti che reciprocamente provavamo si
potevano esprimere solamente stando vicino, in silenzio.
Mi disse che era stanca di lottare per la vita e che era pronta a separarsi.
Credetti che questo le consentisse dopo tutte le sue angosce ed ansie uno stato di accettazione e
di pace, cosi come se il dolore se ne fosse andato e la lotta fosse finita.
Oggi sono convinta che avere il coraggio di non sfuggire questi malati senza speranza possa
essere di grande aiuto durante le ultime fasi della loro vita, che s'impara sicuramente molto sul
funzionamento della mente, quando si vivono aspetti eccezionali dell'esistenza umana.
ome dice la Kubler - Ross (3): 'se ne esce forse con minori ansie riguardo alla propria fine'.
Dopo questa esperienza, trovo che il lavoro terapeutico sia troppo inquietante e delicato per
essere riferito solo a modelli teorici e concettuali definiti.
L'atemporalità della fiabe per es., il loro essere situate in una dimensione trasfigurata, dove
i
personaggi si muovono in scenari fantastici, rappresentano figure archetipiche che incarnano le
contraddittorie esigenze e tendenze di bambini e adulti sembra prestarsi bene ad illuminare aspetti
profondi delle umane vicende al di là della epistemologia. Ripensando a Winnicott (in Nissim-Momigliano
e Robutti) (4) il quale sostiene che: 'la follia è il non essere mai stati tollerati da
nessuno', spesso mi torna in mente la favola del ranocchio che si trasforma in principe quando
viene baciato dalla principessa di buon cuore capace di accettarlo così com'era, con la sua
bruttezza e la sua ripugnanza.
Una paziente che soffriva di depressione un giorno mi disse di sentirsi
'liberata dal maleficio' per l'attenuarsi della patologia, quando sua madre l'aveva abbracciata.
Nella Bella e la Bestia, 'una creatura deve essere amata prima ancora di essere amabile'
(Betthelehim) (5). Il bacio quindi, diventa un gesto d'affetto che trasforma e migliora consentendo
di ritrovare la bellezza perduta, una metafora di quello che dovrebbe accadere tra terapeuta e
paziente nell'accettazione di quest'ultimo da parte del primo con tutte le sue parti più primitive
e
inadeguate che verranno necessariamente trasformate ed integrate.
Anche nel concetto di 'Base Sicura' (Bowlby) (6) la presenza empatica della madre è condizione
essenziale perché il suo bambino sopravviva e cresca.
Winnicott (cit. da Nissim - Momigliano e Robutti, op. cit.) con il termine 'Holding' indica come si
dovrebbe tenere in braccio (così come nella propria mente) il bambino ed il paziente, rimanendo
'là dove egli è' e dove chiede di essere raggiunto. Nella relazione terapeutica oltre a tollerare
e
condividere, condizioni essenziali dell'incontro empatico, è importante saper attendere,
soprattutto con i Pazienti più gravi con i quali è necessario sapersi avvicinare gradualmente
mettendo da parte le pretese sciamaniche di avere già tutte le risposte in tasca, e ascoltare,
considerando che chi stà di fronte è qualcuno che ha una sua storia personale da raccontare,
diversa da tutte le altre... e che deve avere il tempo, la disponibilità e la voglia di farlo.
Il racconto
psicoterapico, come dice Di Chiara (in Nissin-Momigliano e Robutti op. cit.) (7), non è soltanto
la 'narrazione di fatti ed eventi clinici... non è un testo, ma sempre un contesto... una relazione...
un raccontare ad un altro che ascolta all'interno di una trama comunicativa d'affetti e di emozioni
che sono le precondizioni essenziali e preverbali ". Per questo, il racconto analitico non ci
informa, ma ci fa partecipare, raccogliendo ed esprimendo "la vicenda emozionale e relazionale
interna e condivisa dei suoi due protagonisti. Così come avviene nel Piccolo Principe di Saint-Exupery
(8), l'incontro tra la volpe dei deserto ed il principe venuto da una stella. è ancora una
volta metafora della gradualità necessaria nell'avvicinarsi a chi, sia pure ritroso e selvatico,
desidera che qualcuno lo raggiunga. La volpe della favola desidera, infatti, che il Principe
l'addomestichi, e addomesticare - lei dice - significa 'creare dei legami'... cosa che da tempo gli
uomini hanno dimenticato.
Chi lavora con gli psicotici sa quanto è facile farli 'scappare' e, se le cose stanno così,
questo
comporta un avvicinamento graduale - come suggerisce la volpe stessa al principe e questi deve
accontentarsi all'inizio di guardarla da lontano, senza parlare, 'perché le parole, spesso, sono
fonte di malintesi'. Successivamente ci si potrà avvicinare ogni giorno un po' di più, ma
sempre alla stessa ora, e quell'ora sarà importante e diversa da tutte le altre. La volpe non
si limita però solo a questo ma svela al principe il suo segreto: "non si vede bene che col
cuore!
l'essenziale è invisibile agli occhi... Solo le cose che si addomesticano e a cui si dedicano tempo
ed
energia si addomesticano e a cui si dedicano tempo ed energia si conoscono profondamente ", e di
esse si rimane responsabili per sempre, anche quando inevitabilmente ci si deve separare, proprio
come avviene nella fiaba e nella realtà...
I momenti cruciali dell'esperienza analitica sono l'incontro, la costruzione affettiva del legame, la
separazione. Proprio questa ultima l'analista sa di dover tenere presente sin dal primo incontro. 'Il
paziente è un altro - dice Di Chiara (op. cit.) è il suo altro per eccellenza nel rapporto
analitico'; e
ancora: 'separarsi è l'elemento pertinente al riconoscimento ed allo sviluppo dell'identità
psichica
e somatica, all'elaborazione dei processi di lutto, e quindi alla formazione della persona umana
normale'. Solo, però, se si è appartenuti, ci si può separare anche se il commiato è
inevitabilmente un po' triste, pur lasciando un reciproco arricchimento per 'L'esperienza che si è
condivisa' (Nissim-Momigliano, op. cit.),
Se accettiamo il concetto che il lavoro di terapia proceda per transitorie identificazioni proiettive,
il terapeuta si trova continuamente a contatto con livelli di sofferenza mentale la cui intensità
non è
preventivabile. Si pone quindi un cruciale interrogativo: quale rischio si è disposti a correre
per
accogliere e metabolizzare esperienze non ancora conosciute' ma che la relazione con il paziente
può scatenare in noi? La Wittemberg (in Nissim-Momigliano e Robutti, op. cit.) (9) - per es. -
sottolinea l'angoscia che può comportare l'operazione di introiezione - incorporazione, attraverso
la quale l'operatore si fa carico
delle sofferenze del paziente, con il rischio di rompersi egli stesso esponendosi ad un mutamento
catastrofico, secondo quanto sostenuto da Bion (cit. da Nissim-Momigliano e Robutti,).
Le intense difficoltà sperimentate nel lavoro psicoterapico danno la misura di quanto sia temuto
l'incontrarsi con quelle parti di se stessi che vengono continuamente proiettate sui pazienti e che
gettano luce insopportabile su aree emozionali che comportano un dolore mentale non elaborato
e forse mai elaborabile.
Per quanto sia difficile la consapevolezza di questi aspetti, non la si può certo eludere facendo
finta di non vedere. Sembrerebbe quindi che il contatto con il dolore mentale possa rendere più
vulnerabili e più fragili, togliendo
forza ed energia, soprattutto in chi essenzialmente riesce ad entrare in contatto con questo dolore
e farlo momentaneamente suo. Ma con sottile ironia, una vecchia fiaba tedesca riportata da
Carbone e Cuzzolaro (op. cit.), suggerisce che non è proprio vero che consapevolezze dolorose
tolgano energie, rendendo più vulnerabili.
Esistono persone, dice ancora la fiaba, che nascono con un cuore di cristallo, un cuore vibrante e
sensibile, capace di risuonare ad ogni sensazione e di percepire le vibrazioni dell'altro. C'è
il
rischio, però, che questi cuori, se sottoposti ad urti troppo violenti, possano spezzarsi
irreparabilmente. Spesso, invece si incrinano soltanto, e - come tutti sanno - gli oggetti incrinati
sono gli ultimi a... rompersi. E', vero, quindi, che i cristalli incrinati si spezzano difficilmente,
ma è
anche vero aggiungersi -secondo la mia esperienza - che non risuoneranno mai più come prima...
RINGRAZIAMENTI: al Dr. Nicotera va la mia gratitudine per avermi aiutata a trasformare "l'emozione
in parola ".
BIBLIOGRAFIA
1) PIERANTOZZI M. in: Gorkin M., Greenson R., Searles H. F. (1992) "I Sentimenti del Terapeuta", Bollati Boringhieri,
Torino.
2) CARBONE P., CUZZOLARO M. (1984) - "L'agire e il setting nel rapporto medico -paziente".Prospettive
Psicoanalitiche nel Lavoro Istituzionale, 2, 1.
3) KUBLER ROSS E. (1988) - "La morte ed il morire" Cittabella.
4) WINNICOTT D. W. in Nissim-Momigliano L., Robutti A. (1992) - "La esperienza condivisa", Cortina, Milano.
5) BETTELHEIM B. (1992) - "Il mondo incantato" Feltrinelli, Milano.
6) BOWLBY J. (1989) - "Una base sicura" Cortina, Milano.
7) DI CHIARA G.: in Nissira-Mornigliano L,, Robotti A. - Op. cit.
8) DE SAINT - EXUPERY A.: (1992) - "Il piccolo Principe" Bompiani, Milano.
9) WITTEMBERG 1. (1988) in: Nissim-Momigliano L, Robotti A. - Op. cit.
10) BION W. R. in: Nissira-Mornigliano L., Robutti A. - Op. cit.
Congresso Nazionale
OTTICA SISTEMICA E CLINICA PSICHIATRICA
Vibo Valentia
Lo studio della famiglia è stato trascurato per molti anni in ambito psicoanalitico, anche se già
Freud (1921) aveva dato delle indicazioni per una visione più relazionale e sociale dello sviluppo
e del
funzionamento dell'individuo. Lo sforzo compiuto in tutti questi anni di usare alcuni concetti propri
della psicoanalisi individuale nella terapia familiare di tipo psicoanalitico, ha portato all'uso di
termini
quali "apparato psichico gruppale", "interfantasmatizzazione", "mente gruppale",
"meccanismi di
difesa familiare" nell'intento di comprendere il funzionamento familiare (Cigoli, 1989).
Dopo gli anni '70, in campo psicoanalitico si è sviluppato un maggior interesse per una concezione
relazionale dello sviluppo dell'individuo. Winnicott (1971) afferma, in proposito, che il comportamento
dell'ambiente è parte dello sviluppo personale di ogni individuo.
Kernberg, citato dalla Nicolò (1990), riconosce che i primi processi di interiorizzazione hanno
caratteristiche diadiche, sono cioè interiorizzazioni non solo di un oggetto, ma di una relazione
di sé
con l'oggetto". '
Altri studi della scuola francese in campo etologico e neuropsicologico mettono in evidenza la
reciprocità tra l'emergere del senso di sé ed il campo di relazione soggettiva, per cui si
può dire con
Winnicott (1971) che %l bambino crea l'ambiente come l'ambiente crea il bambino".
Per tali motivi lo studio della famiglia e del suo funzionamento diventa indispensabile, poiché
la
famiglia costituisce l'ambiente principale dove hanno luogo tutte le relazioni dell'individuo con
l'ambiente.
Gli strumenti utilizzati per condurre il lavoro terapeutico con le famiglie sono: il setting,
l'interpretazione e la relazione terapeutica. Essi hanno
portato allo sviluppo di un metodo di lavoro che attinge a principi analitici (Nicolò, 1985). Il
setting consente di svolgere il processo terapeutico ed è costituito da alcune costanti quali:
il
contratto terapcutico, che contiene tutti quei fattori spazio-temporali e tecnici necessari per
costituire la cornice del setting; il setting interno, che è costituito dall'atteggiamento mentale
del
terapeuta.
Questi due elementi consentono all'operatore la comprensione, la descrizione e
l'interpretazione del "mentale" partendo dall'uso dei dati percettivomotori ed emotivo-rappresentazionali
del pensiero. li tutto costituisce, poi, specifico oggetto di ricerca e di
apprendimento nella formazione dello psicoterapeuta.
La relazione terapeutica va vista a vari livelli. Essa è una relazione a due poti: da una parte
c'è la
famiglia che viene con la propria storia e con i propri compiti, relativi al particolare stadio di vita
in cui si trova; dall'altra vi è il terapeuta o la coppia terapeutica che ha una storia, una specifica
preparazione e orientamento e, se è una coppia stabile, esperienze da tempo condivise, contesto
di lavoro comune e vari problemi conflittuali che si creano all'interno della coppia o in rapporto
agli altri colleghi.
Tutto questo costituisce valore di fattore trasformativo non solo nella famiglia, ma anche nel
terapeuta.
Infatti il terapeuta è un membro interagente anche se ad un livello diverso.
Nella seduta vi è la presenza reale dei membri della famiglia, oltre che i suoi fantasmi, e quindi
si
hanno relazioni reali nel "qui ed ora", che possono subire, nel corso delle sedute modificazioni
imprevedibili.
Il terapeuta stabilisce una relazione emotivamente significativa con la famiglia e questo gli
consente una mediazione tra livello individuale e familiare, oltre che lo sviluppo di capacità
riflessive e di pensiero (Nicolò, 1985).
Con l'interpretazione, lo psicoterapeuta fa in modo, successivamente, che tutto quello che viene
comunicato acquisisca significato, in modo da far accettare esperienze altrimenti vissute come
intollerabili. Quindi, assumerà per la famiglia e per ciascun componente il ruolo, sia di un oggetto
reale, sia di un oggetto fantasmatico (Nicolò, in corso di pubblicazione).
In questo contesto assume particolare valore un altro livello di analisi: il transfert e il
controtransfert che si crea nel corso della relazione con la famiglia. Il transfert è un fenomeno
universale che si verifica in tutte le situazioni di vita, anche non terapeutiche, ma nella storia della
psicoanalisi esso ha assunto diversi significati fino a quello attuale che lo considera come il fulcro
su cui si incentra tutta la situazione analitica.
Il transfert è "tutto quello che viene proiettato sul terapeuta e vissuto in
relazione a lui ed al setting attraverso le fantasie inconsce che accompagnano l'esperienza
pazìente/terapeuta" (Box e coli., 1985).
E' un evento che scaturisce nel presente poiché la famiglia riproduce con lo psicoterapeuta le
proprie modalità di funzionamento relazionale in cui il terapeuta si trova inserito e con cui è
costretto a confrontarsi. Come dicono Box e coli. (1985), "anche se viene presentata la
patologia del paziente, tutti i membri della famiglia hanno un punto d'incontro nel loro mondo
interno comune che comporta l'esistenza di angosce comuni".
E ancora, "elaborare il transfert familiare significa comprendere il transfert comune considerando
ciascuno come parte di tutto un sistema, implicato in una relazione congiunta e inconscia, non
solo reciproca, ma ritira La anche al terapeuta". La famiglia agisce sul terapeuta attirandolo
nel
suo sistema difensivo o tentando di spingerlo ad agire invece che a comprendere. Essa tende ad
agire verso il terapeuta modalità relazionali che traggono la loro origine da esperienze non
elaborate e non pensate.
Solo il terapeuta può comprenderle, partendo dall'analisi del proprio controtransfert.
E' quindi inevitabile il sorgere del controtransfert in risposta al transfert: sono le risorse del
sistema terapeutico che consentono di mettere in moto il processo (Nicolò, 1983).
La famiglia porta aspetti dispersi, confusi o scissi al terapista ed egli deve funzionare come
contenitore di questi aspetti non comprensibili del sé per restituirli in modo comprensibile (Box
e
coli. 1985).
Il controtransfert si può considerare, allora, come l'insieme di sentimenti e reazioni inconsce
che il
terapeuta vive in rapporto al paziente, ma, specialmente, al suo transfert. L'analista lo usa per
comprendere il paziente, partendo da ciò che accade in lui come oggetto del transfert e, quindi,
dalla percezione di sé come oggetto dell'identificazione proiettiva del paziente.
L'analista si può identificare, in parte, come oggetto interno al paziente e così si sovrappone
all'oggetto interno proiettato dal paziente.
Dal riconoscimento di questi fenomeni, come dice la Segal, citata da Box e coll. (1985), l'analista
può produrre
l'interpretazione del mondo fantasmatico del paziente e darla nel qui e ora della seduta, favorendo
- a partire
da questo punto - la trasformazione del rapporto all'interno della coppia analitica.
Il controtransfert in terapia familiare è dato dalle reazioni emotive del terapista alla famiglia,
sia nei
confronti dei singoli membri, sia nei confronti con la famiglia come sistema ed, infine, coi singoli
come sottosistema (Nicolò, 1983). Sussiste per il terapeuta il rischio di immettere una parte di
sé, oppure di metterla da parte. Egli può vivere i membri della
famiglia come sostituti simbolici di personaggi del suo passato o può inconsapevolmente
identificarsi con una parte del sistema. E' solo filtrando le proprie emozioni e lasciando arrivare
alla famiglia quelle legate ad un'ipotesi interpretativa che può raggiungere l'obiettivo di produrre
un cambiamento utile alla terapia.
La capacità del sistema terapeutico di elaborare emozioni provenienti dal sistema familiare e di
restituirle con modalità basate sull'ascolto e l'interpretazione, oppure l'impegno comportamentale
del terapista in seduta (così come lo abbiamo delineato), favorisce la possibilità di far
circolare -
come dice Fissi (1986) - "affetti e realtà psichiche rimaste in ombra e proiettate, permettendo
alla
famiglia ed ai singoli individui di riappropriarsene. La terapia nasce da questa circolarità ed
evolutiva di un processo che coinvolge insieme famiglia e terapista".
BIBLIOGRAFIA
1) S. Box, B. Copley, J. Magagna, E. Moustaky (a cura di) (1985): Psicoterapia familiare. Un approccio
psicoanalitico.
Liguori, Napoli.
2) V. Cigoli (1989): La connessione relazione-persona quale pietra d'angolo della terapia familiare.
Prospettive
psicoanalitiche nel lavoro istituzionale. 7, 3, 331.
3) F. Fissi (1986): Legittimità e deIimitazione del concetto di controtransfert in terapia familiare.
Terapia familiare, n.
21.
4) S. Freud: cit. da Nicolò (1983), cit. avanti.
5) 0. Kerneberg: in A.M. Nicolò (1990), op. cit.
6) A.M. Nicolò (1983): Sull'uso del controtransfert in terapia familiare: spunti per una discussione.
Terapia familiare n.
13.
7) A.M. Nicolò-Corigliano (1985): Comprendere la famiglia: un'ipotesi interdiscipli- nare, in
Terapia familiare n. 19.
8) A.M. Nicolò-Corigliano (1990): Verso una prospettiva psicoanalitica per lo studio della famiglia
e della coppia in
Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzioale 8, 1, 25.
9) A.M. Nicolò-Corigliano, P. Pede, C. Spinelli (in corso di pubblicazione): Specificità
nella tecnica della psicoterapia
psicoanalitica con la famiglia. Rivista Oltre lo specchio.
10) H. Sega], cit. da Box e coll., op. cit. 11) D.W. Winnicott in: A.M. Nicolò
(1990), op. cit.